giovedì 21 marzo 2013

Farrrrrrrrrrrrragginosissssssimo


Due espressioni: 世辞  e   社交辞令

Riprendo da come sono stata presa. Così. L’ultima volta scrivevo, come la penultima, in senso vago, d’attesa, di conferma, di poesia, di impazienza e stanchezza. L’ultima volta scrivevo ma non scrivevo. Però ci sono due persone, due sole, ma proprio quelle due persone, che mi hanno scritto delle cronache, che me ne hanno riportato l’impulso dentro e la necessità, più che altro, di abbandonare l’ignavia e darsi alla tastiera, che è penna quando deve. Quindi, per Emanuele Cavallo e Ilaria Sperti sopra tutti, queste sono le cronache di Nipponia che ha fatto fiorire la primavera. E che con quelle due espressioni non c’entrano niente.

Tutto ciò che riguarda la mia esperienza a Nipponia parte e ruota intorno a quelle due espressioni e alla loro nemesi. Seji, la prima, è il complimento, la cortesia, la svenevolezza, ma si concretizza nell’atteggiamento tipicamente giapponese che porta  dirti “Alessandra, ma il curry di oggi l’hai fatto tu? Ma era buonissimo!” per poi girarsi verso la mia amica e dirle “Mamma mia, faceva proprio schifo oggi!” (fatti e persone non sono per niente casuali, caro Ryo, mica te lo perdono!). E’lo stesso atteggiamento che induce una donna anziana a prendermi in casa per fare una cortesia a non si sa più chi e fare con me la mega-svenevole, regalarmi elastici per capelli e indicarmi come vestire perché, come riferito appena messo piede a casa sua ad una terza persona, “non mi aspettavo mica che avesse i capelli così gonfi, ma non va bene questa ragazza!”. La stessa persona che ora che lavoro in un caffè di lusso ad Aoyama e tanta gente su facebook mi riempie di attenzioni ha iniziato a elogiarmi platealmente, venendomi a trovare con affetto (mentre pochi giorni prima aveva vietato che mi si invitasse ad una festa a casa sua tra italiani).
Shakoujirei è invece un modo diplomatico di porre le cose, un modo mieloso di parlare o una promessa vuota, ovvero i loro “andiamo a fare questo, vediamoci questa volta, dobbiamo assolutamente venire da te in questo periodo” detto senza alcuna intenzione di farlo, come sa bene il mittente quanto il destinatario. Non ci andrete mai, con loro a fare questo o quello. Ma lo devono dire, lo devono fare, devono mostrare. Sempre e solo qualcosa che non c’è.
Ovviamente c’è da distinguere il tratto culturale da quello caratteriale. Loro si arrabbiano sempre se dico che sono un po’ ipocriti, ma culturalmente!, eppure io non conosco altre espressioni per definire l’atteggiamento che induce qualcuno a dire che qualcosa è buono, bello e piacevole laddove gli fa schifo per essere lezioso, non è come quando tua zia ti regala le pantofole di velcro con scritto Viva Venezia mia per il tuo diciottesimo compleanno e tu dici “ooooohhhhhhh, che beeeeeeeellooooo, graaaaaazieeeeee, lo volevo prooooooooooopriooooooooo” (che è pure un po’ esagerato), ma è come chiamare e richiamare quella zia ricordandole quanto ti siano piaciute quelle ciabatte perché prima o poi potrebbe servirti in qualche modo. Non è un’ipocrisia reattiva di difesa, è proprio aggressiva. Li porta a fare i dolci e i simpatici con grandi sorrisi e poi pugnalarti alle spalle appena ti giri senza pietà, anche con cose che potrebbero dirti tranquillamente in prima persona. Come quando un giorno discutendo di tutto ciò alla New Start ho scoperto dopo mesi e mesi che tutti erano infastiditi dal mio profumo in mensa ma che nessuno me lo aveva detto perché pensavano che essendo estate fosse per coprire la puzza di sudore!!! E nel frattempo tutti a dirmi “oooohhhh ma che buon profumo, usi molto profumo eh, ma è un profumo costosto?”. Fino a “pensavamo fosse per la puzza di sudore” ci può pure stare, ma se sottolinei più volte sorridendo questa o quella cosa con tanti “oooohhhhh” e “aaahhhhhh”, non ci arrivo che significa che ne sei schifato e in qualche modo vuoi punirmene. O più semplicemente, che è l’ultimo pettegolezzo all’ordine del giorno e ci si crede furbi a sorriderne con me.

Questo è anche da considerare: se avete un segreto, non parlatene con un giapponese come se fosse implicito non dirlo a nessuno. Sottolineatelo, fatevi fare una yubikiri yakusoku, imponetegli il segreto monastico, trovate una soluzione, ma se parlate di qualsiasi cosa con loro, loro avranno il diritto di dirlo a chiunque come l’ultima grande novità o un incredibile aneddoto. E siccome ciò infetterà comunitariamente anche voi italiani, guardatevi da ogni etnia in caso di segreti o himitsu che dir si voglia. La vita comunitaria ti condiziona in modi che non puoi nemmeno immaginare. Figurati censurare!

Comunque sia, la vera difficoltà del vivere a Nipponia è solo una: i Nipponesi. I Nipponesi con la loro cultura cementificata e l’ancor più cementificata capacità di oltrepassare i limiti di ciò che si impara, si fa, va imparato o va fatto, il percorso, per così dire, la strada del KOKO HA NIHON DA! Noooooooooooooooooooo…..non so più quante volte all’espressione “Qui siamo in Giappone” ho risposto “Qui siamo nel mondo!”, attirando su di me l’odio dell’incontestabilità di chiunque. Come si fa a spiegare ad un bambino che è per il suo bene che lo sgridi, che è perché lo adori che vorresti vederlo crescere per il meglio? Come si fa a dire ai Nipponesi che io Nipponia la amo anche quando gli strapperei le braccia per allungarci i piedi del tavolino troppo basso e con la tibia e il perone ci farei le bacchette per cucinare, quelle lunghe? Come si fa? Come si fa a capire a quelli che lavorano con me che anche se sono la più piccola e sono straniera non ci vuole un training culturale per capire come lavare il pavimento per vederlo pulito o che in un ristorante le posate vanno messe tutte uguali altrimenti diventa una mensa e che se glielo devo ripetere tutti i giorni non sono io la cattiva ma sono loro nuketeru che lavorano qui da anni e ancora non ci arrivano? Perché se io ho imparato subito a fare quello che fanno loro (due o tre mesi di pratica) loro non riescono a capire che un’insalata composta di mucchietti ed una assortita elegantemente con un minimo di buon gusto NON sono la stessa cosa? E soprattutto perché, perché, perché non posso accettare di essere rimproverati o che gli si voglia insegnare qualcosa in tutti i modi, perché? Perché se il capo li sgrida solo per frustrazione abbassano il capo fino a terra e se poi io discorro con loro con calma cercando di fargli capire il senso dell’errore e soprattutto di non doverlo ripetere tutti i giorni ricevo solo mugugni, musi e lamenti?

Perché non aprirsi e migliorare invece di komattare subito? Perché pensare di vivere ancora nell’Edo jidai solo quando ci conviene? Perché non imparare ad essere più diretti o per lo meno a riconoscere che culturalmente, un Paese in cui non esistevano le espressioni sì e no in passato ma si rispondeva con eufemismi, non è proprio il Paese delle relazioni sane? Che se tu invece di dirmi non lo fare mi dici “se non lo fai va bene” rendi solo tutto più farraginoso?

Perché sì signori miei, la meravigliosa Nipponia che io tanto amo è incredibilmente, inconcepibilmente, irresponsabilmente farraginosa. E il Paese che dovrebbe brillare per capacità ed arte e tradizione si fossilizza in arte tradizionale e arte della tradizione. E per noi è il paradiso, perché “eeeehhh, hai studiato cinque lingue” e “eehhh, sai fare tante cose” e “eeehhh, come sei coraggioso/diretto/luminoso/forte”. Mi chiedo se questo sia mai stato per qualcuno un “ma non è che siamo noi che siamo…”.

Nipponia mia, l’Italia l’ho dovuta lasciare perché non le potevo fare molto, ma a te, no, a te non rinuncio. Apro ufficialmente nelle Cronache di Nipponia lo spazio delle Critiche di Nipponia. Urge autocritica, signori miei. In tutti noi. 

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