Due espressioni: 世辞
e 社交辞令
Riprendo da come sono stata presa. Così. L’ultima volta
scrivevo, come la penultima, in senso vago, d’attesa, di conferma, di poesia,
di impazienza e stanchezza. L’ultima volta scrivevo ma non scrivevo. Però ci
sono due persone, due sole, ma proprio quelle due persone, che mi hanno scritto
delle cronache, che me ne hanno riportato l’impulso dentro e la necessità, più
che altro, di abbandonare l’ignavia e darsi alla tastiera, che è penna quando
deve. Quindi, per Emanuele Cavallo e Ilaria Sperti sopra tutti, queste sono le
cronache di Nipponia che ha fatto fiorire la primavera. E che con quelle due
espressioni non c’entrano niente.
Tutto ciò che riguarda la mia esperienza a Nipponia parte e
ruota intorno a quelle due espressioni e alla loro nemesi. Seji, la prima, è il
complimento, la cortesia, la svenevolezza, ma si concretizza nell’atteggiamento
tipicamente giapponese che porta dirti
“Alessandra, ma il curry di oggi l’hai fatto tu? Ma era buonissimo!” per poi
girarsi verso la mia amica e dirle “Mamma mia, faceva proprio schifo oggi!”
(fatti e persone non sono per niente casuali, caro Ryo, mica te lo perdono!).
E’lo stesso atteggiamento che induce una donna anziana a prendermi in casa per
fare una cortesia a non si sa più chi e fare con me la mega-svenevole,
regalarmi elastici per capelli e indicarmi come vestire perché, come riferito
appena messo piede a casa sua ad una terza persona, “non mi aspettavo mica che
avesse i capelli così gonfi, ma non va bene questa ragazza!”. La stessa persona
che ora che lavoro in un caffè di lusso ad Aoyama e tanta gente su facebook mi
riempie di attenzioni ha iniziato a elogiarmi platealmente, venendomi a trovare
con affetto (mentre pochi giorni prima aveva vietato che mi si invitasse ad una
festa a casa sua tra italiani).
Shakoujirei è invece un modo diplomatico di porre le cose,
un modo mieloso di parlare o una promessa vuota, ovvero i loro “andiamo a fare
questo, vediamoci questa volta, dobbiamo assolutamente venire da te in questo
periodo” detto senza alcuna intenzione di farlo, come sa bene il mittente
quanto il destinatario. Non ci andrete mai, con loro a fare questo o quello. Ma
lo devono dire, lo devono fare, devono mostrare. Sempre e solo qualcosa che non
c’è.
Ovviamente c’è da distinguere il tratto culturale da quello
caratteriale. Loro si arrabbiano sempre se dico che sono un po’ ipocriti, ma
culturalmente!, eppure io non conosco altre espressioni per definire l’atteggiamento
che induce qualcuno a dire che qualcosa è buono, bello e piacevole laddove gli
fa schifo per essere lezioso, non è come quando tua zia ti regala le pantofole
di velcro con scritto Viva Venezia mia per il tuo diciottesimo compleanno e tu
dici “ooooohhhhhhh, che beeeeeeeellooooo, graaaaaazieeeeee, lo volevo
prooooooooooopriooooooooo” (che è pure un po’ esagerato), ma è come chiamare e
richiamare quella zia ricordandole quanto ti siano piaciute quelle ciabatte
perché prima o poi potrebbe servirti in qualche modo. Non è un’ipocrisia
reattiva di difesa, è proprio aggressiva. Li porta a fare i dolci e i simpatici
con grandi sorrisi e poi pugnalarti alle spalle appena ti giri senza pietà,
anche con cose che potrebbero dirti tranquillamente in prima persona. Come
quando un giorno discutendo di tutto ciò alla New Start ho scoperto dopo mesi e
mesi che tutti erano infastiditi dal mio profumo in mensa ma che nessuno me lo
aveva detto perché pensavano che essendo estate fosse per coprire la puzza di
sudore!!! E nel frattempo tutti a dirmi “oooohhhh ma che buon profumo, usi
molto profumo eh, ma è un profumo costosto?”. Fino a “pensavamo fosse per la
puzza di sudore” ci può pure stare, ma se sottolinei più volte sorridendo
questa o quella cosa con tanti “oooohhhhh” e “aaahhhhhh”, non ci arrivo che
significa che ne sei schifato e in qualche modo vuoi punirmene. O più
semplicemente, che è l’ultimo pettegolezzo all’ordine del giorno e ci si crede
furbi a sorriderne con me.
Questo è anche da considerare: se avete un segreto, non
parlatene con un giapponese come se fosse implicito non dirlo a nessuno.
Sottolineatelo, fatevi fare una yubikiri yakusoku, imponetegli il segreto
monastico, trovate una soluzione, ma se parlate di qualsiasi cosa con loro, loro
avranno il diritto di dirlo a chiunque come l’ultima grande novità o un
incredibile aneddoto. E siccome ciò infetterà comunitariamente anche voi
italiani, guardatevi da ogni etnia in caso di segreti o himitsu che dir si
voglia. La vita comunitaria ti condiziona in modi che non puoi nemmeno
immaginare. Figurati censurare!
Comunque sia, la vera difficoltà del vivere a Nipponia è
solo una: i Nipponesi. I Nipponesi con la loro cultura cementificata e l’ancor
più cementificata capacità di oltrepassare i limiti di ciò che si impara, si
fa, va imparato o va fatto, il percorso, per così dire, la strada del KOKO HA
NIHON DA! Noooooooooooooooooooo…..non so più quante volte all’espressione “Qui
siamo in Giappone” ho risposto “Qui siamo nel mondo!”, attirando su di me l’odio
dell’incontestabilità di chiunque. Come si fa a spiegare ad un bambino che è
per il suo bene che lo sgridi, che è perché lo adori che vorresti vederlo
crescere per il meglio? Come si fa a dire ai Nipponesi che io Nipponia la amo
anche quando gli strapperei le braccia per allungarci i piedi del tavolino
troppo basso e con la tibia e il perone ci farei le bacchette per cucinare,
quelle lunghe? Come si fa? Come si fa a capire a quelli che lavorano con me che
anche se sono la più piccola e sono straniera non ci vuole un training
culturale per capire come lavare il pavimento per vederlo pulito o che in un
ristorante le posate vanno messe tutte uguali altrimenti diventa una mensa e
che se glielo devo ripetere tutti i giorni non sono io la cattiva ma sono loro
nuketeru che lavorano qui da anni e ancora non ci arrivano? Perché se io ho
imparato subito a fare quello che fanno loro (due o tre mesi di pratica) loro
non riescono a capire che un’insalata composta di mucchietti ed una assortita
elegantemente con un minimo di buon gusto NON sono la stessa cosa? E
soprattutto perché, perché, perché non posso accettare di essere rimproverati o
che gli si voglia insegnare qualcosa in tutti i modi, perché? Perché se il capo
li sgrida solo per frustrazione abbassano il capo fino a terra e se poi io
discorro con loro con calma cercando di fargli capire il senso dell’errore e
soprattutto di non doverlo ripetere tutti i giorni ricevo solo mugugni, musi e
lamenti?
Perché non aprirsi e migliorare invece di komattare subito?
Perché pensare di vivere ancora nell’Edo jidai solo quando ci conviene? Perché
non imparare ad essere più diretti o per lo meno a riconoscere che
culturalmente, un Paese in cui non esistevano le espressioni sì e no in passato
ma si rispondeva con eufemismi, non è proprio il Paese delle relazioni sane?
Che se tu invece di dirmi non lo fare mi dici “se non lo fai va bene” rendi
solo tutto più farraginoso?
Perché sì signori miei, la meravigliosa Nipponia che io
tanto amo è incredibilmente, inconcepibilmente, irresponsabilmente farraginosa.
E il Paese che dovrebbe brillare per capacità ed arte e tradizione si
fossilizza in arte tradizionale e arte della tradizione. E per noi è il
paradiso, perché “eeeehhh, hai studiato cinque lingue” e “eehhh, sai fare tante
cose” e “eeehhh, come sei coraggioso/diretto/luminoso/forte”. Mi chiedo se
questo sia mai stato per qualcuno un “ma non è che siamo noi che siamo…”.
Nipponia mia, l’Italia l’ho dovuta lasciare perché non le
potevo fare molto, ma a te, no, a te non rinuncio. Apro ufficialmente nelle
Cronache di Nipponia lo spazio delle Critiche di Nipponia. Urge autocritica,
signori miei. In tutti noi.