venerdì 25 maggio 2012

Il mio secondo rental, il mio primo Shinkansen




- "Le cronache di Nipponia" -
     quarantesimo giorno
     (martedi' 22 maggio)


Quando sei sullo Shinkansen non ti rendi conto di quanto sia veloce, lo Shinkansen. Quando sei nel gabbiotto di vetro alla fermata e passa un altro Shinkansen e trema tutto, lì lo capisci, quanto sia veloce lo Shinkansen. Fa ufficialmente brutto, lo Shinkansen. E prenderlo è più difficile che dire dieci volte di seguito Shinkansen.
A Nagoya con Jasmine-san, che ovviamente non si chiama Jasmine-san, ma quel gran burlone del top leader pare scelga nomi a caso per la gente. Da qui Jasmine, Anita e penso anche Christie, a questo punto. Il top leader è proprio un boss. Nagoya dallo Shinkansen è un incanto. Case rurali sulle risaie, vecchio Giappone profumato. Sarà che Chiba è sull’oceano, ma anche se piove l’aria è più calda. È proprio quella pioggia calda di maggio profumata di treni e di riso. Siamo appena arrivate e Nagoya già mi piace. Ora andiamo a Gifu. Vediamo che ne viene fuori.

Non ve la posso spiegare, la campagna Nagoyese. Non sono proprio a Nagoya, sono a Gifu, con un vento profumato nel verde più pieno. In questo momento sono seduta sul sostegno di legno di un altare da preghiera, accanto alla cassetta per le offerte. Camminando tra vecchi edifici, ponticelli e casette nel grano siamo arrivati a questo piccolo vecchio tempio. Ci sono persino due torii rossi. Corvi, cicale e uccelli. Ho lanciato 50 yen (lo ammetto, sono un po’a secco) e ho pregato intensamente per la mia persona più cara, perché trovi la pace. L’ho fatto in giapponese, quindi Okamisama avrà capito, spero. Mi perdonerà la grammatica. In tutto ciò posso godermi questa meraviglia perché dopo due ore di Shinkansen, un quarto d’ora di treno e venti minuti di camminata il tipo non è in casa. Ergo dovremo aspettare fino alle sei che ritorni o si presenti o si palesi, insomma. Sono solo le tre e mezza, d’altronde. Ma chi se ne frega.

Scusate, mi sono tolta le scarpe per poter salire a gambe incrociate sulla pedana. Okamisama, che profumo! Non i miei piedi, ovviamente, simpaticoni! Però qui in Giappone, se hai il cuore per farlo, respiri tutto con tutto il corpo e io ho respirato forte più in questo mese con i piedi che nella mia vita con i polmoni. Ho ritrovato il gusto di camminare a piedi scalzi, di vivere una vita vera. Ho ricordato con tutto il corpo d’essere nata in un paese. L’ho ritrovato. Non so se ho capito bene cosa avessi perso o cosa stessi cercando, ma l’ho ritrovato. Persino questi quattro ragazzini che giocano a palla nel parco mi appartengono. Io non tornerò. Non posso perdermi di nuovo. Devo viaggiare e conoscere e capire. Devo stupirmi ancora.
Vorrei tanto portare qui mio padre. Sono sicura che anche lui ritroverebbe qualcosa che forse non ha mai perso. Se a ritroverebbe dentro. E sarebbe davvero felice. Vorrei portarlo a capirmi di più, a sapere perché non tornerò e soffrire di meno. Fargli capire da dentro le mie decisioni, perché sono come sono. Mia madre, invece, è già fin troppo pura. Forse sarebbe lei ad arricchire il posto. Ma qui non ci sono ragazzi da salvare per la sua missione educativa, qui non c’è chi ha bisogno di lei, a parte me. Da questo punto di vista è come me: deve cercare qualcuno da aiutare, salvare, cui dedicarsi. Ieri qualcuno mi ha detto “tu sei proprio una mamma, sei nata per essere una madre”. Mi vengono in mente queste parole nel verde e nel profumo e mi viene da piangere. Vorrei creare una famiglia grande e forte da mandare nel mondo, persone vere, disomogenee, complesse. Artisti di mondo creati  dal mio amore e pronti a viversi per equilibrare la realtà. Non riesco a continuare. Scusate, ma credo di essere in procinto di scoppiare di verità. 

lunedì 21 maggio 2012

Asakusa matsuri con Don Vito Corleone de noartri

Se il liquore giapponese non mi risale nelle vene impedendomi di continuare il racconto, lasciate che vi parli dell’Asakusa matsuri ne


- "Le cronache di Nipponia" -
     trentanovesimo giorno
      (lunedì 21 maggio)



L’Asakusa matsuri è la festa religiosa più importante di Tokyo e si tiene nel quartiere di Asakusa il 18, il 19 e il 20 maggio. A quanto ho appreso, se ho ben capito, quest’anno era la commemorazione dei 700 anni dell’Asakusa matsuri. Ad Asakusa, oltrepassato il kaminari mon, o “cancello del fulmine”, si trova un complesso di templi meraviglioso e per il matsuri s’era riempito di ulteriori bancarelle come ogni festa che si rispetti, con banana split colorati, takoyaki, pesce e carne cotti in tutti i modi, pesciolini rossi da pescare, giochi estivi. Il mio appuntamento era alle 13, quindi ho chiesto di sabottare alla grande e non sono andata a lavorare. Piuttosto ho indossato il mio yukata (kimono estivo) nuovo, non avendo l’obi mi sono ingegnata con una cintura che stava comunque molto bene, la mia borsetta comprata a Kyoto due anni fa e degli zoccoli che non sfiguravano. Ero bella, è inutile a dirsi, finalmente mi sono sentita bella, dolce, elegante e sensuale con un senso di dignità che pervadeva ogni centimetro della mia pelle. Quando sono scesa al centro tutte le ragazze hanno iniziato a dirmi “sexy, sexy, aspetta” e mi hanno sistemato lo yukata. Tenendolo chiuso con una mano, a piccoli passi, la piccola Alessandra si è avviata alla volta di Asakusa. Mi piace ricevere sguardi ammirati, ma odio lo squallore e quella famelicità lasciva che purtroppo è la costante dell’uomo italiano, perciò amo il Giappone. Amo il fatto che gli uomini possano guardare la tua bellezza prosperosa come qualcosa di prezioso e quasi spaventoso, da temere come pericoloso e potente e non da voler spezzare, devastare e distruggere. Questa è una cosa che gli uomini italiani purtroppo non capiranno mai, spostandosi dal desiderio al disprezzo. Una persona meravigliosa, quella sera, in una circostanza del tutto assurda, mezza addormentata e con totale purezza mi ha detto “sembri una modella, un quadro francese”. Nessuno mi ha mai detto cose belle senza alcuno scopo come in Giappone. Da chi mi disse, imbarazzato, che i miei occhi sono cristalli, a tutte le volte in cui mi sento dire che sono energica, bella, solare, intelligente e gentile. Gli uomini qui sono tutti un po’ bambini e come dice il mio amico italiano forse faccio loro anche un po’paura. Di sicuro, nessuno allunga neanche un dito verso di me. Sono salva, al sicuro. Sono felice.
Nonostante tutto, ieri sembravo una bellissima concubina dell’Edo jidai, fiera e sicura. Il mio amico italiano, lì con me, dopo lunghi discorsi filosofici come siamo soliti fare insieme capendoci perfettamente, indossa una maschera appena comprata e attiriamo l’attenzione dei capi del luogo. Le feste religiose, in Giappone, sono gestite da una sorta di mafietta. Come mi hanno spiegato, in Giappone ci sono gli yakuza veri e propri, i mafiosi veri, per intenderci, e poi ci sono le famiglie potenti che gestiscono i quartieri tenendo tutto ordinato e sotto controllo, per intenderci. Uno di questi, insieme a due soci ed una donna che si lasciava buffamente chiamare onee-san, ci fermano e ci chiedono se siamo italiani e ci portano in un famoso bar di Asakusa a bere e mangiare. Finchè il mio amico deve andare ad incontrare il suo capo e io vengo praticamente lasciata in ostaggio. Il Don Vito Corleone nipponico (come si è autodefinito, per altro) fa al mio amico “Ti do un’ora”. Non mi resta che far buon viso a cattivo gioco, sfodero tutta la mia brillante simpatia e giù di risate, pacche, spiegazioni culturali, sentimenti filosofici, gente che vuole fotografare me e il mio tatuaggio, non si capisce più niente. E si beve, si mangia, Don Vito spende, spende, spende. Poi l’onee-san va via abbracciandomi calorosamente e cercando il mio contatto e io, Diego, Don Vito e il socio rimasto andiamo a mangiare il dolce in un altro locale. Don Vito è affascinato, niente da fare, io inizio a temere sinceramente. Ma l’alcol risolve tutto, in certi casi. Passando davanti ad un negozietto Don mi spiega che con il mio yukata, che tra l’altro si mette da luglio, la mia borsa non va bene e mi dice “quale ti piace tra queste due?” indicando quelle corrette. Poi, senza aspettare la mia risposta, mi dice che con i miei capelli e il mio abbigliamento va bene quella chiara e la compra. Così, che volete che sia, solo 150 euro di borsa comprati da uno sconosciuto, che ovviamente ti ci fa subito svuotare dentro la tua roba, perché è quella che devi usare. E grazie alle nostre influenti conoscenze io e il mio amico condividiamo l’esperienza più bella della storia, visto che ci viene permesso l’accesso ad una zona cui non si può accedere ed ho praticamente potuto fotografare il corpo dorato di un dio. È una delle ultime cose che ricordo prima di entrare nell’ennesimo bar ed iniziare a bere un paio di bicchieri enormi di liquore giapponese, quello che noi erroneamente chiamiamo sake. Come dicevo, l’alcol risolve tutto. Niente tiene distante un uomo con cattive intenzioni quanto una bella donna seminuda che vomita l’anima a terra in un ristorante. La restante oretta è vuoto totale, ma mi hanno detto che Don Vito ha rassicurato il mio amico con un “ci penso io”, poi mi hanno messo su un taxi perché non mi tenevo in piedi e vorrei tanto potervi raccontare il resto, esperienza che meriterebbe una cronaca di Nipponia a parte. Ma, in quanto bella, in quanto esperienza e in quanto mia, a meno che non impazzisca e decida di sputtanare proprio tutto, la terrò per me, tra frasi dolcissime e l’essenza vera dell’essere un gentiluomo. Se pensate che il principe azzurro sia una favola, scordatelo. Un principe da manga, con gli occhi a mandorla, la voce gentile, modi delicati e savoir-faire impeccabile è da sogno, altro che favola. Le favole te le raccontano prima di dormire, un sogno ti avvolge e anche quando svanisce, al mattino, ti lascia addosso quel tepore incantevole che ti manca poi per tutta la giornata. Quel tipo di sogno, profumato e con la pelle delicata. L’Asakusa matsuri non per tutti è lo stesso matsuri. C’è chi vomita e sogna senza chiudere occhio. Nella notte giapponese, calda e musicale.

martedì 15 maggio 2012

Ancora troppo poco

Scrivo parole pensate poco ma vere. Scrivo parole pensate poco ma scrivo parole e penso parole che scrivo poi penso. Poi scrivo. Sembra un pezzo che conosco.


Cerco di trovare parole
Cerco di trovare parole poco
Cerco di trovare parole.


Difficile scrivere una cronaca oggi. Non e`malinconia, non e`dolore, non e`tristezza e poi nemmeno mancanza perche`in realta`sono sollevata. Ho bisogno di tempo, di respiro. E forse fumare due Marlboro lights alla volta non e`il metodo migliore per recuperarlo. Ho mal di testa. Qui fa freddo, poi caldo, poi freddo, in tutti i modi. E io sto a piedi e cuore scalzo. E qui parte Max Gazze`.


Provare, sentire, parlare, capire, restare immobili in un tramonto fresco che arriva troppo presto. Ma qui alle 4 di mattina albeggia. E fortunatamente io lo so. Il karaoke puo`essere un`esperienza struggente. Ma sentirti cadere la terra dal cuore puo`uccidere. Dov`e`casa se non hai mobili per arredare l`immenso e l`immanente? Dove sei tu? Ora prendo la bici che non ho e ti vengo a dormire vicino. Mi faccio piccola in un futon troppo stretto e ci scambiamo il calore di una lacrima asciutta. Perche`mi hai fatto vedere quella disperazione sorridente? Non era sorriso, era sberleffo. Ti beffavi di te? Dammi la mano che ti riscaldo la nostalgia, te la metto venti secondi nel microonde della nudita`. Poi al bip prendo un cartiglio di pelliccia rasata (sintetica) e ce la adagio sopra e ti dico "fai piano, che scotta". Nel frattempo siamo nudi in quel futon. Vestiti, poi nudi. Poi soli. Siamo soli in quel futon e ci stringiamo stanchi piangendo per i fatti nostri in un angolo di disperazione che l`altro non puo`vedere. E ci capiamo i morsi. Morsi di fame angosciata che aspetta di urlare vendetta, di fame reclusa, stipata, usurata e confusa, di fame ghiacciata che muore di fame. E mentre le urla ci muoiono in bocca con un movimento da percezione mancata, gentile, breve e un po`addormentato ti fai piu`vicino, mi stringo un po`piu`e poi riprendiamo a sognare. Domani si lavora. Otsukaresama.


- "Le cronache di Nipponia" -
             Gia`un mese
      (domenica 13 maggio)

I wanna say "Yes, yes, yes!!!", but I say "No, no, no!!!", till I say "Yes, yes, yes!!!" so will you wait for me

- "Le cronache di Nipponia" -
    venticinquesimo giorno
       (lunedì 7 maggio)


Dibattuto l’arduo tema del rock-punk-hardcore-metal-ninzò giapponese passerei ad un tema che mi sta molto più a cuore, ovvero le mie coinquiline. Passerei, appunto. Parliamo invece della giornata free hugs.

Domenica scorsa c’è stata la memorabile giornata Free Hugs. Christie-san ha ripetuto per un mese circa “facciamo Free Hugs, facciamo Free Hugs” con questo cartello colorato in mensa, ai nabekai, ovunque, senza che né io né Claudia capissimo assolutamente che non dovevamo abbracciarci fra di noi ma umiliarci pubblicamente in pubblico. Se vi state chiedendo se Christie sia il suo vero nome, fate bene. Non lo so nemmeno io. Ho appreso solo da poco che Jasmine-san e Anita-san non si chiamano assolutamente così; a quanto sembra il top leader è un gran burlone e si amusa con questi nomignoli scherzosi. Pensare che a me era sembrato solo un vecchio ubriaco di quelli di paese (ma vestito meglio) che continuano a fare la stessa battuta all’infinito e ridere da soli (le ragazze si vogliono sposare, si vogliono sposare, sposatevi con uno fra loro! Alzi la mano chi se le vuole sposare! Finché, al mio “ma solo i ricconi”, tutti zitti e passa la paura).

Detto ciò, ci ritroviamo domenica in mensa all’una, pranziamo e assolutamente ignare del seguito io e Claudia ci infiliamo in macchina con Macchan ed altri per andare al Kasai Rinkai Koen, un parco straordinario. In primo luogo, immenso. Appena entrata mi ha assalito un odore natsukashii quanto strano. La nostalgia veniva dal verde, il verde bagnato in una bella giornata, ma l’odore era salmastro, forte, come fosse caduta una pioggia di lacrime su un immenso volto sereno. La giornata era strepitosa, ho subito notato quella che poi ho appreso essere la ruota panoramica più grande del Giappone, verde e fiori e laghetti a non finire, una piazza centrale con il parco acquatico e poi la via principale con una sorta di belvedere. Ci piazziamo sulla via principale, Christie-san caccia i cartelli e mentre loro, quelli per cui in teoria è stato creato l’evento, per farli sciogliere un po’, si addormentano amabilmente sul prato, io e Claudia ci lanciamo in un free hugs disperato sinceramente istruttivo.

In primo luogo ho imparato l’utilissima parola oppai, che indica un prosperoso balconcino giustapposto al petto delle gentili signore. Strano eh? Ammetto che sia anche colpa mia, che non mi sono assolutamente contenuta. Ma diamone un po’ anche alla natura, please. L’unico che aveva il diritto di dirmelo è stato quel pulcino cui la mamma suggeriva di farsi abbracciare da me e che con uno sguardo tra il perplesso e il divertito (e, forse, l’affamato), mi ha indicato e ha detto “oppai” e la mamma subito “scusa, scusa, ha due anni” e io me lo sarei mangiato, tesorissimo. I cazzoni grandi, invece, come amabilmente li definirebbe il mio amato otousan, li avrei pestati a sangue, cosa che, come sono solita fare anche in Italia, ho fatto verbalmente, con i miei “hai qualche problema?”, “non ne hai mai viste?” e “muori” nipponici. Bellissimi momenti di cuozzaggine che, translati in Nipponia, diventano solo le domande offese di una delicata giovane prosperosa. Quant’è bello parlare una lingua in un cui il tono fa la persona quindi puoi dire qualsiasi cosa tremenda, basta che la pronunci come una signorina delicata e se poi sei straniera è il top, c’è sempre l’escamotage del “gomenne, io no compriendo!”. Amo questo universo parallelo, non ci vado mica su alpha centauri, col cavolo che mi muovo!
I nipponesi, comunque, sono assolutamente, zettai ni, hazukashii a livello massimo. Le donne e i bambini si sono abbastanza lanciati, vecchiette comprese, ma i ragazzi giammai. E più erano cuozzi e megatunz, il cui soggetto medio qui è molto abbronzato e solitamente dotato di canotta che porta rigorosamente alzata sullo stomaco, che a pensarci bene, forse, è lo stesso del cuozzo megatunz italico, e più si imbarazzavano. Prima facevano gli splendidi, poi quando la mia faccia di oshiri gli si avvicinava invitante si scostavano, poveri mezzibaka (sì, Lè, sì, mezzifessi, perché?). E lì, sempre con la mia faccia di oshiri, con falsa sorpresa naturalezza dicevo loro “ma siete adulti o siete ancora poppanti?”. E filavano, ah se filavano! E’ stato tutto molto bello.

Dopo un’ora di free hugs m’ero quasi un po’ rotta er ca’, ergo siamo andati sul belvedere, alla fine della strada principale, e lì ho visto, per la prima volta e senza sospettarlo, l’oceano. Solo a dirlo mi vengono i brividi. Domenica scorsa ho visto l’Oceano Pacifico. E puzzava. Ma chi se ne frega. C’erano passaggi e paesaggi splendidi, abbiamo fatto una passeggiata sulla spiaggia e c’erano delle conchiglie strepitose, di cui ho raccolto una busta piena. Erano cartacce accartocciate di conchiglie, bouquet di conchiglie, esplosioni di conchiglie. Erano le conchiglie dell’oceano. E puzzavano. Ma quanto puzza, l’oceano? Comunque sia, giunta ai sassi di Salerno del Pacifico ci siamo saliti, ci siamo fotografati e ce ne siamo tornati indietro. E a quel punto il momento s’è fatto topico, l’aria s’è fatta densa e la tensione è salita alle stelle perché, a quel punto, era arrivato il momento della kanransha!!! La Nihon ichiban oki!!!! Credo di aver fatto qualcosa come un’ora di fila con tornanti che nemmeno una chicane (avrò detto una cosa sensata? D’altronde, continuo a dire a tutti questi pseudo-autisti che io al furusato sono Schumacher!). Siamo saliti al volo perché la ruota panoramica non si ferma mai, coppie mal assortite e agli antipodi. I nostri uomini seguivano silenziosamente, io e Claudia eravamo agitatissime, facevamo foto e video a manetta, impazzivamo per tutto. Due cretine, ufficialmente. E anche se a quel punto l’aria s’era fatta freschetta, dopo quattro ore di parco ce ne siamo tornate felici e tanoshikatta a casa, ma, non contente, dopo mezzora ce ne siamo andate pure al nabekai della domenica del dormitorio maschile, dove ho potuto assaggiare un alcolico alla prugna, gradazione 3%, in pratica succo di frutta. Ottimamente pietoso.

In pratica qui la riabilitazione la sto facendo io. Non mi ubriaco più, non litigo con nessuno da un mese!!! (e sarei capacissima di farlo anche in giapponese, tranquilli), lavoro allegramente che ci sia pioggia o sole, vado in giro da sola senza restare più di dieci minuti a casa, dove mi lavo e dormo e guardo amabilmente la tv mentre faccio più di uno spuntino. Ma chi sarà mai, questa Ale-chan che m’è venuta fuori all’improvviso, dove la tenevo, dove stava riposando, chi sognava? Poi, quando si fa l’una o le otto, mi rendo sempre perfettamente conto di quale sia la risposta. Credo di saperlo bene, estremamente. Credo che mi stiano salvando, credo che tornare mi aprirà il cuore a metà e poi ne taglierà fettine sottili da cui gronderà bellezza addolorata, goccia a goccia, cadrà quella notte meravigliosa, cadranno i sorrisi di quel pomeriggio, cadrà il volano al parco e il primo giorno ad Akiba con Kuri e Nobu, cadrà il karaoke con Diego e Kunro e Kato e Kanako-chan. Ma soprattutto cadranno i nostri discorsi del mondo che non sente nessuno, cadrà il tuo sguardo imbarazzato e malinconico e cadranno le nostre risate quando ti faccio vedere la mia roba masticata o quando ci imbocchiamo come fratello e sorella e ci mangiamo anche le dita, cadranno gli occhiali sul naso come un vecchietto e quella parola, famiglia, che ci si forma sempre tra una parola e l’altra come vapore brillante mi resterà nell’anima anche quando non ci sarai, anche quando non mi sarai seduto accanto nel buio a parlare a mezza voce, a giocare ai daimyo o a tirarci fuori le amarezze, uguali ma non paralleli, sovraesposti e sovrapposti, due e basta, noi, tu una persona taisetsuna, probabilmente la ichiban.

Harder, faster, better, punker, rocker-duck

Questa settimana ho veramente sabottato alla grande, mi sono proprio grattata l’onaka e ho pensato solo ad asobare con i tomodachi, quindi vi ho pienamente trascurato (ed ora anche confuso, credo, ma va tutto daijoubu). Avrei una serie di argomenti di cui fare le mie baka esposizioni, tipo le cinque ore di concerto di ieri, i free hugs di domenica, la frequenza di nanpa, la tv, le mie coinquiline, uno spazio speciale per Toma-kun, la moda nipponese del momento. Perciò, avendo ormai vissuto quasi un mese nel paese delle meraviglie, darei ordinatamente inizio ad una random blaterata, partendo, ovviamente, dall’ultima cosa, ovvero


- "Le cronache di Nipponia" -
    ventiquattresimo giorno
     (domenica 6 maggio)


Il mio primo live club è stata un’esperienza drastica. Avevo già fermamente stabilito che dopo il duro allentamento di questi mesi a Potenza mi sentivo pienamente in grado di affrontare nottate nei locali di Tokyo fino alla riapertura mattutina della metro, quando, un giorno, un signorino identificato quale Gianluca, anche nomenclato Asso Growa, mi fa “cerca Mighty Crown e capirai di cosa parlo”. A quel punto mi si aprono le porte della street culture nipponica e scopro millemila live club in cui è possibile ascoltare hip hop e reggae tutti i giorni, dai dieci ai trenta euro di ingresso, ma, e dico MA, avevo deciso di partire assolutamente da un concerto dei Mighty Crown. L’unico cui sarei potuta andare, il prima possibile, era quello di ieri. L’evento sbagliato. Il Liquid Room presentava “MOSH BOYz”, con Mighty Crown, Laughin’nose, Stab 4 reason, Joe Alcohol & The Wonderful World, 10-FEET e Totalfat. Se qualcuno li conosce alzi la mano. Io no. Sta di fatto che l’ingresso è alle tre, inizio previsto alle quattro. Prezzo del biglietto 4.000 yen (circa 40 euro) più 500 yen aggiuntivi per una spilletta scambiabile con un drink. Mi guardo intorno. Nella sala non si può mangiare, non si può fumare, non si possono fare foto. Perfetto, alla giapponese, cominciamo bene. Poi mi guardo intorno e vedo tutti sti nippici con le magliette da concerto, con gli asciugamani, le bandane, mi aspetto qualcuno con il santino di Liga o di Laura Pausini e inizio a temere per l’esito della serata. Sta di fatto che doveva essere un grande evento organizzato per la golden week (la settimana dell’anno in cui a Nipponia in teoria non si lavora e si va in giro) perché costava un botto e si sono esibiti un botto di gruppi famosi, a quanto pare, mentre la tv riprendeva tutto. Il problema è stato il genere. Quando si apre il tendone, alle 16.00 in punto, ovviamente, mi si presenta lo spettacolo più ilare possibile. Ho capito nettamente cosa sarebbe successo se Sid Vicious e Kurt Cobain fossero arrivati all’età pensionabile, mentre Jim Morrison con i capelli tinti sospirava frasi ad effetto con la dentiera traballante. Questo gruppo di tre sessantenni e una giovane risorsa sui trentacinque anni, imbottiti di borchie, gel, pellame vario (e non solo, secondo me), inizia a saltare sul palco, ad urlare (e urlare e urlare e urlare), a sudare come la fontana di Trevi se le si rompesse il rubinetto centrale, con questo remake di My Way metal, hard rock, punk, non ne ho idea, perdonatemi, ma la verità è che, per usare un’espressione autoctona dello Shikoku, “facevano veramente brutto”. Non so se è stato il fatto di non aver mai assistito ad un concerto del genere, se essendo un mega concerto c’erano i migliori, se di musica non capisco assolutamente nulla, non lo so, ma spaccavano. Sudavano, si agitavano, si eccitavano e andavano su di giri come un maialino da trufolo davanti ad un tartufo gigante delle dimensioni del cupolone o del fondoschiena di Rosa Piro (che più o meno si equivalgono). I momenti migliori sono stati sicuramente lui, il frontman, questo spudorato giovanotto sulla sessantina completamente fradicio sotto i riflettori, che si fa il segno della croce con il dito medio, sempre lui che afferra il microfono al volo dopo una mirabolante piroetta e lo fa staccare dall’asta ma molto giapponesamente si affanna a rimetterlo a posto (e non ci riesce), ed infine ancora lui che per saluto si lecca le dita e le agita verso il pubblico. Se sei giapponese, se a sessant’anni hai ancora la faccia da bambino, se non sei un bad boy, sappi che è zettai dame. Per non parlare del Carlos Santana della terra del riso calante ( eccome se se lo calante) che partiva con degli assoli estatici verso il pubblico con sole due dita mentre il suo viso esprimeva grande sofferenza, eccitazione, dolore orgasmatico e piena consapevolezza dell’onda sonora. Il Jimi Hendrix del Kanto.

Per quanto riguarda il pubblico, solo due o tre file di questi sorcini rock-punk-metal che pacatamente, di quando in quando, sollevavano il braccio e urlavano pezzi di canzoni o striduli gridolini. Ho iniziato a rimpiangere i 4000 yen, poi, dopo mezzora, il nonno della notte ha deciso di non schioppare sul palco ed ha abbandonato la scena ringraziando commosso l’ufficio inps di Shibuya per questa occasione, chiusura del sipario, dispersione della folla, di nuovo tutti seduti. Passa mezzora ed inizio a pensare che quelli siano stati solo l’apertura, siamo in Giappone, è tutto ordinato, le folle non si muovono dal loro quadratino di parquet, i Mighty Crown sono il primo gruppo in lista, staranno preparando il megaconcerto. No. La serata si è svolta esattamente in questo modo. Gruppo, mezzora, mezzora di pausa, altro gruppo, ordine sparso. I Mighty Crown hanno suonato alle nove meno venti con sole due file di persone sotto il palco e me in prima fila (chissà su che rete sono finita, mi hanno inquadrata un sacco di volte), unica a muovere realmente l’osso sacro (dopo 4 ore di attesa e 45 euro spesi, sì, porca ciabatta), ma ne è valsa la pena. Semplicemente era la serata sbagliata, forse, per il primo e l’ultimo gruppo, i nonnetti e i Mighty, perché quando si è aperto il sipario sul secondo gruppo si è scatenato il delirio!!! La sala si è improvvisamente affollata, io ero nella terza-quarta fila ma mi sono dovuta spostare sul lato perché è iniziato un bordello pazzesco, il parquet tremava sotto i salti e i pogamenti malati dei giovani nippici, maschi e femmine, impazziti come Ulisse al canto delle sirene, richiamati alla follia al punto tale che dalle retrovie hanno iniziato a lanciarsi sulla folla, ad essere trascinati sulle teste fin sotto il palco per poi essere gettati a terra nello spazio appositamente creato tra palco e transenne, maschi e femmine, come una giostra, fino allo sfinimento. E nessuno si è fatto male. Si riunivano, incitati dal cantante, in cerchi concentrici e poi iniziavano questo turbine di pogamento pazzesco. Persino i bulli del quartiere, che hanno rovesciato birra, fumavano e rompevano tranquillamente, sono stati pacatamente emarginati e lasciati al loro gruppo di idioti, senza risse, scazzi né altro. Credo che se si usasse questa tecnica anche a Potenza, con la famosa minaccia di ogni festa meglio riuscita, i cosiddetti “pignolesi”, forse si eviterebbe ogni volta di spegnere la musica, chiamare i carabinieri e rompere le palle ad altri pignolesi come me che magari hanno pure pagato volentieri il biglietto. Passato il momento amarezza, posso tirare il fiato pensando che ho ancora altri due mesi a Chiba prima di ripiombare nel baratro.

Insomma, devo ufficialmente chiedere perdono ai nippici a cui ho ripetutamente dato degli sfigati ogni volta ribadendo “Italians do it better”. Viva viva viva la Nipponia musicale. In questo caso “Nippis do it better”, clamorosamente. Ogni volta, dispersione delle folle dopo mezzora, poi tutta una sala che si agitava, io che iniziavo a disperare, dj inutili che nessuno ha cagato, security che viene a ricordarmi che “è vietato fare video” proprio prima dei Mighty Crown e finalmente si apre l’ultimo sipario. Saremo stati in pochi, sarò su Chiba Tv e su Mtv Tokyo, avrò sudato come il nonnetto della notte e tutti i punk-rock-metal successivi (ma quanta voce e liquidi corporei hanno i giapponesi?), ma mi è piaciuto da morire. Da sola, lì, l’unica pseudo-jamaicana tra tutti quei trucidissimi, prendere sulle nostre teste i Mighty Crown lanciati a rock star e muovermi FINALMENTE come piace a me, come avevo proprio bisogno di fare per dare a Tokyo ciò che Tokyo mi ha dato, non ha avuto prezzo. Un unico appunto: sarà la new school, il new trend, la new wave e sarà pure la volkswagen, ma i Mighty Crown hanno lo stesso vizio di Asso Growa amplificato a tremila. In venti minuti di concerto avrò sentito quarantotto pezzi, trenta secondi per abituarti al ritmo e pulloooooqualcosa (mi corregga pure qualsiasi amante del genere) e via con una cosa completamente diversa. Allora, o mi fai ballare o mi fai ballare, mi fra. Ho detto proprio così a quello dei Mighty Crown quando si è lanciato per la terza volta ed è arrivato sulla mia testa: “mi frà, però nu pezz mu putess pur fa send, era megl quann gia ai danz d’Asso Growa” e lui mi ha risposto come un mi fra di Yokohama quindi è inutile che ve lo scriva, è troppo gergale. Finito tutto, nell’aria ormai completamente estiva di Shibuya, me ne sono pacatamente e felicemente tornata a casa (alla quale sono giunta dopo una sola oretta di metro). Morale della favola, i giapponesi sono più plastici di Dante, con queste performance perfettamente orchestrate che sembrano davvero esaltazioni satiriche e poi li vedi che cortesemente si girano di spalle per bere o si lanciano in ringraziamenti di cuore con voci malinconiche ed espressioni quali “kokoro kara” e “boku no naka ni” (dal cuore e dentro di me) tra un urlo dannato ed un altro. Per dirla con Eisenhower, i giapponesi sono delle macchiette, qualsiasi cosa facciano. Non voglio tornare a casa, zettai ni. Se solo restare oltre i tre mesi non fosse zettai dame..

誰もいない海

Ho un milione di cose di cui scrivere, per cui, per evitare di imbrattarvi la bacheca, scrivo una mega-iper-nota de


- "Le cronache di Nipponia" -
  quindicesimo giorno
  (venerdì 27 aprile)


*I supermercati * a.k.a. “Le jeux sont fait, rien ne vais plus!”

I supermercati in Giappone sono dei gelidi casinò e con gelidi non intendo che le persone siano scontrose, ma che sono proprio dei frigoriferi con gli scaffali. Poi ti domandi perché i giapponesi siano sempre raffreddati. E ci credo! Passano da 30°esterni ai -15° dei supermercati. Dai grandi supermercati al minimarket aperto 24/24h non c’è molta differenza nei prezzi, magari il megasuper ha piu’ scelta, ma md e conad ancora non ne ho visti. La parte migliore, però, è assolutamente “la cassa”. Partendo dal presupposto che il carrello è un sostegno di plastica con due spazi, uno superiore ed uno inferiore in cui inserire uno o due cestelli di plastica di quelli che si portano in mano quando non si vuole il carrello. Utile, veloce, salvaspazio, giapponese. Alla cassa prendi il tuo cestello o i tuoi cestelli (ma che parola è “cestello”?), li posi sulla cassa, sposti oltre il sostegno, la cassiera prende la roba dal tuo cestello e mentre ti dice pezzo per pezzo cosa sia e quanto costa mette ordinatamente la roba in un cestello vuoto che ha davanti a sé. Una volta pieno, diventerà il tuo cestello e il vuoto resterà a lei per il prossimo cliente. Prendi il pieno e ti sposti su dei banconi oltre la cassa dove ti metti con calma a riempire le buste senza disturbare gli altri in fila alla cassa. Ma il momento migliore è assolutamente quello in cui paghi. La cassiera ti mostra il totale, tu gli dai i soldi, lei dice quanti soldi gli hai dato e quanto resto ti deve, poi ti mostra il resto con l’abilità di un croupier d’altri tempi (e quando uso questa giocosa espressione, intendo proprio che se sono banconote le apre a ventaglio con grande maestria e poi te le smazza una ad una contandole), te le mette rigorosamente in mano e ti chiede se vuoi lo scontrino. Io vorrei sempre chiamare la finanza, ma alla fine lo fanno, che te lo diano o meno. L’altro giorno c’è stato il momento migliore. Quando mi ha messo nella busta il sapone liquido (perché nei minimarket ti riempiono loro la busta e te la porgono pure) io l’ho subito preso e messo in borsa. Vedevo il commesso in attesa e non capivo perché avevo già preso soldi e prodotto. Poi l’ho guardato ed ho capito che stava aspettando di porgermi con entrambe le mani lo scontrino. Me lo doveva dare in mano, capite? Non lo poteva gettare quasi con sdegno come la migliore delle commesse italiche, doveva accuratamente posarlo tra le mie mani. Mi dispiace non potervi far sentire la tonalità, rigorosamente identica per ogni commesso di Nipponia, con la quale elencano i prodotti, prendono i soldi e vi danno il resto. Non esistono individui divertenti quanto i nipponesi, davvero non credo esistano. Sono proprio dei mitici bizzarri.


*Kichijouji* a.k.a. nemmeno Fiorello mi ha segnato tanto

Finalmente mercoledì la mia prima uscita serale tra ccciovani. Sono andata a Kichijouji con Diego, due sue amici giapponesi, una giapponese e un finlandese che parlava un giapponese veloce quanto incomprensibile. Ci ho messo solo un’ora e mezza, d’altronde, quindi sono lieta di vivere a Chiba. Questa volta sono uscita con la Tokyo bene, tutta gente dotata che studia alla Tokyo Daigaku, comunemente detta Università imperiale di Tokyo. Dove ha studiato Mishima, per intenderci. E dove studia anche il mio amico Diego (amico è poco? Vogliamo dire orgoglio? ^^). Vogliamo fare l’esempio di questo giovane di 23 anni che ha studiato in America, è laureato e questa settimana ha trovato lavoro in banca? Non so. Comunque sia, Kichijouji è piena di locali, è una Shibuya meno colorata e più a misura d’uomo. A quanto sembra è il quartiere più ricco di angoli al mondo, non so se sia un primato figo, ma è così. In uno di questi vicoli angolati abbiamo mangiato in un locale piccolissimo su due piani, come si usa qui: piatti al centro, alcol a manetta, tutti di faccia nei piatti e si ride e si scherza (e si beve, manco poco). Poi abbiamo fatto una passeggiata e qui l’idea geniale: il karaoke. Non ero mai andata ad un karaoke giapponese e temevo di non poter cantare niente. Se posso esprimermi liberamente..la regina del mic!!! E’ stato fantastico! Prima di tutto riuscivo abbastanza bene a leggere l’hiragana (merito del duro allenamento con Touma-kun), poi c’erano sia cantanti stranieri che sigle di anime, quindi daje di Bohemian Rapsody, Natural Woman, Sailor Moon , Dragon Ball e Karekano (Le situazioni di Lui e Lei). E giù con i complimenti sulla voce. Eheheheh. Poi i giapponesi sono fantastici, si sgolano, si sbragano, si divertono come i pazzi. Sono troppo carini, con un giapponese ti diverti responsabilmente. Avevamo scelto una serata in cui con 10 euro circa bevi e canti quanto vuoi tutta la notte e abbiamo allegramente fatto le 3. D’altronde, Diego doveva alzarsi solo alle sette! Quindi siamo corsi a casa ed io ho avuto l’onore di dormire al dormitorio maschile, in una stanza minimale come la techno in cui la stanzetta con il water è anche la doccia. Comodo? No. Né utile né bello, ma sarà almeno un edificio Meiji (1868-1912), pensando alle nostre scuole non mi esprimerei. La mattina, con calma, sul tardi, verso le 7.40!!!, siamo usciti perché Diego aveva lezione alle nove, quindi abbiamo preso un autobus, un treno, poi io ho cambiato due metro e alle dieci e qualcosa ero a Chiba. A quel punto i piedi non reggevano più le scarpe della laurea, quindi me le sono abilmente tolte e sono tornata a piedi nudi. La gente mi guardava molto meno di quando fumavo camminando (qui non si può, come in America) e soprattutto arrivata a casa ho dovuto solo sciacquare un po’ i piedi. A Roma avrei preso il tetano solo a pensarla, questa cosa. Totale costo serata, cena + karaoke + trasbordi: 40-50 euro. Direi che ne è valsa la pena. Questa cosa avverrà almeno ogni settimana, peccato solo che Diego sia SEMPRE impegnato, tra università e lavoro e ancora lavoro. E che i soldi non siano troppi. Ma attendo fiduciosa ogni bella serata. E sabato prossimo sono i Mighty Crown a Shibuya!!! Tanoshimi ni matteimasu!


*Il mio primo Rentaru* - Visto un matsu visti tutti, ma il kotatsu è sempre un’emozione

Ieri c’è stato il mio primo rentaru (per gli europici rental), ovvero siamo andati a casa di una ragazza hikikomori per aiutarla ad uscire dall’hikikomorità. Gli hikikomori, letteralmente potremmo dire i “segregati”, sono persone che non studiano o non lavorano e si chiudono in casa. Sinceramente sono diversi da come me li aspettavo. Come mi spiegava uno di loro, ci sono gradi diversi di hikikomoraggine. Lui, ad esempio, ha la mia stessa età, ha cominciato l’università e ha smesso perché non riusciva bene nello studio. Il suo problema? E’ timido quindi non trova lavoro. In Giappone devi essere molto sicuro di te, il mondo dello studio, come del lavoro, è abbastanza tosto, ma non vi immaginate un timidissimo!! Abbiamo parlato un’ora seduti vicini sulle scale, abbiamo riso, scherzato, quindi davvero non capisco perché sia al centro, per di più vivendo in dormitorio. Alcuni sono visibilmente ritardati, altri sono semplicemente un po’ sfigati, ma nipponesi fighi e particolarmente sfrontati ancora non ne ho visti, sinceramente. C’è quello timido che si veste sempre di rosa ed è molto pulito, c’è quello distratto un po’ svagato, c’è quello azzeccoso che si accolla (porca miseria che palle) e spesso io non distinguo chi lavora qui da chi viene seguito. Comunque sia, ci sono anche casi gravi come quelli di ieri. Una ragazza di 28 anni che ha smesso di andare a scuola alle elementari (non so perché, ma dico io, santi genitori, ha 6 anni!!! Mandatecela con la forza, non ve la mettete a casa!) per “timidezza”. In questo caso c’è asocialità patologica, Ayako non esce di casa, non riesce nemmeno a stare seduta vicino a sconosciuti e parla pochissimo, anzi, di solito scrive, non parla. Ieri siamo andate da lei in tre, io e altre due ragazze dell’associazione. Una bella villetta a due piani con un giardino bellissimo, i pini giapponesi (matsu ), l’erba curata e un gatto bianco. Tipico giardino giapponese, insomma. In salone, con Ayako, ci aspettava lui..il kotatsu! Per chi non lo sapesse, il kotatsu è quel tipico tavolo giapponese da cui cade una coperta e sotto c’è una stufa. In inverno ci si riunisce attorno al kotatsu, seduti sul tappeto termico, a gambe incrociate sotto la coperta. E’ stato fantastico, ve lo giuro. Mi veniva da piangere. Sono le cose che fanno vera Nipponia, le cose da anime! Abbiamo mangiato gyudon probabilmente infetto, visto che a quanto pare in America c’è di nuovo la mucca pazza e qui importano da lì. Poi abbiamo trovato l’escamotage di farmi insegnare da lei i kanji, lei scriveva, io copiavo e le chiedevo “come si chiama questo?” e a poco a poco ho sentito la sua voce. Per farle vedere come scrivevo mi sono seduta accanto a lei e abbiamo lavorato un po’. Poi è come se si fosse resa conto di dove si trovava, si è alzata e si è andata a sedere di fronte a me. Allora io ho tirato fuori tutte le mie battute più cretine, ho iniziato a far ridere tutte, bevevamo tè, mangiavamo salatini e dolci e ridevamo, quindi l’abbiamo fatta risedere accanto a me e questa volta è rimasta. Quando siamo andate via le altre erano stupite perché aveva parlato un sacco. Non saprei descrivere la sensazione che ho provato: soddisfazione, compassione, empatia, comprensione, emozione anche. Incontri qualcuno che per te ha una delle maggiori fortune al mondo e nonostante tutto non ha potuto goderne. Un po’ come se una ragazza africana conoscesse un’anoressica. Ha vissuto trent’anni senza conoscere l’altro, chiusa in se stessa. Una ragazza carina a cui non manca nulla. Ho provato un senso di rabbia, l’ho trovato ingiusto. E se potessi vederla al centro almeno prima di andare via sarei al settimo cielo (stavo scrivendo al settimo sora, viva il code mixing). Per lei è ancora troppo presto per venire a vivere qui, è un’hikikomori estrema, ma se può ridere delle mie cazzate, anche se timidamente, ce la può fare. E’ tutto nella mente. La mente, pensavo, è l’emblema dell’umanità. Il punto di forza maggiore è il più fragile, sostiene tutto ed è semplicissimo che imploda. Ma si rigenera, rinasce e può tutto.


Vi lascio con uno dei miei nuovi pezzi preferiti , “Daremo inai umi”. Questo e roba alpina ascoltiamo al centro con le giovani Yamada-san (92) e Nakamura-san (84). In questo momento Nakamura-san sta colorando dei chulippu (tulipani) rossi, io scrivo le mie cronache e dalla cassetta sta venendo fuori una roba che sembra “Faccetta nera”, la stessa giovialità delicata. Domani sera c’è il big party a.k.a. il nabekai del sabato e domenica c’è il free hug in mensa (sperando che il mio uomo venga per approfittarne, muahuhuahuahuahuauah). Ho già ri-voglia di uscire, che palle. Qui piove di nuovo, quando la smetterà? Voglio il caldo, il caldo torrido! Voglio uscire nuda! Oddio, a Kichijouji non è che sia andata propriamente in burqa. Infatti ho sentito dire “bella, carina, intelligente, simpatica e sexy”, in italiano!!!! L’amico di Diego è un tipaccio (quello che lavora in banca), avendo studiato in America è più sbragato dei coetanei nipponesi, mi fa morire
morire dal ridere. A me, sto posto, piace proprio. Tornare sarà uno strazio.


wataaaaaaaashiiiiiiiiiiiii wa wasureeeeeenaaaaaaiiiiiiiiiiii..

Nemo profeta in patria

- "Le cronache di Nipponia" -
   undicesimo giorno
   (lunedì 23 aprile)


E’ come un’onda di cambiamento. E’ come un terremoto cui segue una frana, uno smottamento forte e poi piano, lenta, terra che cade. Succede così adesso. Detto questo credo che, avendoli ormai fatti tutti, sia ora di parlare dei lavori.

Il lunedì lavoro all’Engawa, ovvero il fantastico caffè dove puoi usufruire di internet, manga e libri quanto più ti pare, dalle 9.30 alle 17.30. E’ carino, vecchio e accogliente. Alla poltrona è saltato un bottone, i tavoli sono arrabattati e il carry si fa ogni paio di giorni credo, ma io con l’apron, comunemente detto grembiule (per i meridionici “vantesino”), sto veramente veramente bene. Se poi posso lavorare ascoltando i Foo Fighters e vecchie canzoni francesi cos’ho da lamentarmi? Sono una gran figa, sono in Giappone e lavoro in un piccolo caffè mentre piove e fa caldo. Mi sento in un vecchio film sulla bella Paris (o sulla vecchia Tokyò, leggere col dovuto accento). Dopo aver appreso come preparano il karee, o carry che dir si voglia, non so se lo mangerò ancora. O forse lo mangerò lo stesso, che importa se devi frullare carota, pomodoro, mezza mela e una banana bella matura? E’ il pranzo dei campioni! Anche se se non lo mangiassero alle undici e mezzo del mattino sarebbe meglio, visto che pranzano a mezzogiorno e mezzo. Lavorare con i clienti giapponesi è davvero piacevole e semplice, devi solo utilizzare una formula diversa per qualsiasi cosa fai in diverse situazioni e NON puoi solo parlare in modo più cortese, DEVI usare quella specifica formula. So che sono una gran figa con l’apron blu, ma quando mi guardano come una demente e mi dicono in inglese le cose mi infastidisco, quindi devo diventare anche una gran figa linguistica e chiedere cosa vogliono senza far capire loro che non capisco niente e copio dal menù. Anche perché certe volte non è che non capisca, semplicemente non sento ciò che dicono. Comunque sia, i clienti del cafè sembrano proprio veri clienti. Come saprete il Giappone è il regno delle formule, perciò al di là dei comuni scambi di saluti come buongiorno e buonasera e buonanotte, chi esce, OGNI VOLTA CHE VARCA LA SOGLIA, dice ittekimasu, l’altro gli risponde itterasshai, poi quando torna dice tadaima e l’altro risponde okaeri. Ciò implica che se esci ed entri, mettiamo il caso, dieci volte in un’ora, ci saranno una quarantina di inutili emissioni aerobie. Detto ciò, con i clienti la cosa si triplica. Anche se dici in continuazione arigatou arigatou, quando escono dalla porta, e solo in quel momento, ci vuole un bel arigatou gozaimashita con l’intonazione di uno scivolo sonoro che li accompagni fuori dalla porta. Sorriso falso, respiro profondo e via. Lo stesso con l’irasshaimasen di quando entrano, solo che in quel caso ci vuole l’intonazione a gancio da “vieni qua che mo ti servo io!”. Non so quanti piatti avrò lavato in un lavandino troppo basso per le mie gambe più stivali. Otto ore in piedi non sono una passeggiata. Sono una maratona. E la senaka mi itai, c’est à dire che ho la schiena rotta. Ma va bene così. Preparo il caffè in brodo che usano qui, lavo piatti, porto vassoi e mi sento proprio in un manga. Fortunatamente lavoro con la mia coinquilina che è un amore e mi spiega tutto con gentilezza. Che fortuna saper fare il carry alla giapponese, ora sì che mi sento meglio. Datemi una ciambella mochosa, grazie.

Il martedì passo cinque ore al Manma, la mensa. Lì clienti non ne ho mai visti, anche perché non li distinguo da chi lavora. E’ una mensa abbastanza autoreferenziale, quindi noi ce la cantiamo e noi ce la suoniamo. Inizio alle nove e mezza, l’altra volta appena arrivata mi hanno chiesto “sai cucinare?”, mi hanno dato un portafoglio e mi hanno detto “compra tutto quello che ti serve”. Quindi sono andata al supermercato e ho preparato un kg di penne al sugo di funghi e peperoni alla sorrentina. Li ho visti molto soddisfatti, ma la più felice ero io. E’ stato fantastico poter cucinare in quelle cucine di metallo con tutti gli utensili del mondo, megacoltelli megataglienti megatronici megafoni megane meguri e così via. Questa volta mi sono sentita come in uno di quei film tedeschi che doppiano tremendamente su canale cinque in cui ci sono sempre grandi cucine per grandi amori. Mi mancava il cappello bianco alla Ratatouille ma anche qui, con i miei taglieri e la mia rapidità nello sminuzzare e mettere in ciotoline, ero veramente una gran figa. Poi ho impiattatto in due grandi pirofile e ho servito. In sostanza la mensa funziona in modo molto semplice. Alcuni cucinano, tu vai, scrivi il tuo nome sul registro, ti servi, mangi quanto vuoi, poi ti lavi piatti, bacchette e bicchiere da solo e te ne vai. Quindi bisogna solo cucinare, aspettare le due (si mangia dalle 12.30 alle 14.00 e dalle 18.30 alle 20.00), pulire tutto e andare a casa. Domenica era tutto chiuso quando sono scesa a pranzo, stavo per andarmene quando un omino mi ferma e mi fa “oh scusami, vieni pure”. Siccome quel giorno la mensa non funzionava, mi ha fatto scrivere il mio nome sul registro e mi ha dato i soldi per il pranzo. 400 yen. Giappone. Il sabato, la domenica e il mercoledì la mensa non funziona di sera perché c’è il nabekai, ovvero una festa dove mangi i panini dolci avanzati in panetteria, carne e verdure cotte in mensa e ferrero rocher, patatine, alcol e non, schifezze generiche. Poi parli con una trentina di persone che ti dicono se sono state o meno in Italia, dove sei stata in Giappone, perché ti piace, che lavoro fai, se i tuoi capelli sono naturali o sono una permanente mentre fuori tutti gli uomini (ed io) fumano stupidamente (perché le sigarette qui sono veramente stupide). Il nabekai del sabato mi piace un sacco.

Il venerdì lavoro al sentaa, ovvero al centro (pronunciate center all’inglese e se capite “bravi, avete predisposizione linguistica”), dalle nove alle cinque. Alle nove arrivano le mie due vecchiette preferite dopo le mie nonne, beviamo un tè, leggiamo, chiacchieriamo, chi disegna, chi scrive, chi sta zitto, poi misurano loro la febbre e la pressione, fanno bagni, massaggi ai piedi, tagli di unghie. Poi facciamo dei giochi carini, un po’ di ginnastica e si prepara il pranzo. Io mangio in mensa, poi torno, continua il cazzeggio, guardo un po’ di televisione col mio mini-amico Toma, canto canzoni che non conosco (ma riesco miracolosamente a seguire il pentagramma e leggere rapidamente l’hiragana), gioco, chiacchiero, facciamo merenda, chiacchiero, gioco e arrivano le quattro e mezza. Accompagnano le signore e noi facciamo le pulizie.

Il sabato sono al panya, ovvero la panetteria (sì, bravi, siete proprio dei linguistini nati..è pan-ya, ovvero stanza del pane, ovvero panetteria). Un posto da illustrazioni per bambini. Carino, rosa, il mio apron è rosa, il mio fazzoletto per il capo è rosa, il mio collega Suda solitamente pure è rosa (ha pure la felpa rosa), ci sono giochi, libri, peluches, fiori finti, è il regno della gaiezza, insomma. Ci piace. Lavoro lì dalle 14.30 e no, non faccio il pane. Lo metto delicatamente nelle giuste buste o buste giuste o suste luste o fresche fraste o fast and furious, faccio le pulizie, pulisco i vassoi e le pinze con le quali i clienti scelgono i propri acquisti e affini. Alle sette chiudiamo tutto, ognuno si fa una bustina con la colazione del giorno dopo e poi portiamo gli avanzi al famoso, amato nabekai del sabato. Amo il nabekai del sabato, la gente impazzisce per la mia italianità, i miei capelli, la mia fighezza e la mia disinvoltura e ride incredula alle mie battute stupide che in quanto tali, qui, fanno molto ridere. Anni ed anni di mancata fama in patria dovuti ad uno spiccato senso dell’umorismo giapponese finalmente rivendicati. Nemo profeta in patria.

Oltre a questo, la domenica, il mercoledì e il giovedì cazzeggio altamente. Il mercoledì e il giovedì sono i giorni delle uscite e delle visite. Per ora sono tornata ad Akihabara e Shibuya, ma aspetto il bel tempo per fare il grosso del giro di ritorno, anche detta ri-visitazione. Ora ho fame, ma avendo mangiato tutto il mangiabile in una settimana ora sto già facendo dieta e aspetterò le sei e mezza per cenare (-_-). Stasera ci sono di nuovo le fragole. Il mio pensiero del lunedì però è sempre: che cucino domani? Mi sa pasta fredda e qualcosa che coinvolga una frittata.

à bientôt




Campanule, tè e Casadei giapponese

- "Le cronache di Nipponia" -
ottavo giorno
(venerdì 20 aprile)

Dai, su, parliamone. Ne dobbiamo veramente parlare. Oggi presto servizio al centro. Sono arrivata alle nove. Poco dopo sono arrivate le due signore anziane di cui si prendono cura. Hanno preparato il tè, l’hanno servito con dei biscotti. Abbiamo preso il tè anche noi. Poi hanno misurato loro la febbre e la pressione (e l’hanno misurata anche a me, tranquilli, sto bene!). Ora questa signora di 92 anni sta disegnando delle campanule bellissime e le sta colorando. Capito? Le sta colorando, delle campanule, bellissime!!! Non so cosa dire, questo posto è incredibile. Per di più sto ascoltando del fantastico enka e mi piace (una sorta di Casadei giapponese). Mi sembra di essere in un posto prezioso e misterioso. No, no, vabbè. Ora le fanno il bagno, è pronto il bagno di Nakamura-san mentre Yamada-san disegna le campanule. Anzi, le colora. Io voglio morire qui, deciso. La mia vecchiaia la passerò in Giappone, col Casadei giapponese e le campanule. Honto ni ureshikatta desu!

Encore

Vi voglio solo dire che Yamada-san ha appena disegnato dei gigli bianchi e un tulipano curando i dettagli in maniera impressionante. Ha persino fatto la sfumatura sulla base del fiore. Mi manca nonna Maria. Madò. Madò! Oggi impazzisco.

P.S. Ora stanno facendo un massaggio ai piedi a Nakamura-san con un macchinario fantastico.



Lo colora piano
con le mani di un tempo.
Ricorda le linee,
le traccia, le segue.
Il rosso e il bianco
li alterna con cura.
Riporta su acromatico perché
tutti i giorni che furono.
Il tulipano è rosso
i gigli bianchi.
E la donna ricorda piano.


Sensazioni della prima 週

- "Le cronache di Nipponia" -
            settimo giorno
        (giovedì 19 aprile)

Stare qui sta diventando strano. Mi riempie la testa di cose, poi me la svuota e poi me la riempie di nuovo. E' come se tutto quello che c'è stato, dalla più lontana e piccola delle cose, stesse ritornando vivacemente a ricordarmi d'esserci stata e si confondesse con quello che c'è e/o ci sarà in uno spazio atemporale e illocato. Fumerei una canna, se potesse aiutare, ma qui non solo è illegale, ti sbattono fuori dal Paese. Non sto fumando nemmeno sigarette, visto che gli uomini fumano tutti ma come donna ci sono solo io qui a fumare, ma non vedo l'ora di comprare le sigarette rosa!!! Quanta nipponitudine. Ho abilmente sviato i racconti del mio percorso interiore perché credo non freghi a nessuno, ma ci tornerò, temete pure.

Ho un nuovo amico! Si chiama Toma ed ha 5 anni. Abita accanto a me e passa i suoi giorni al centro ed in un solo giorno siamo diventati migliori amici. L'avevo giò notato al centro, ma l'altra volta ho iniziato a giocare con lui e me ne sono pazzamente innamorata. Fingevo di non riuscire a saltare su un divanetto e lui faceva diecimila prove per farmi imparare a saltare, dicendomi che lui era bravo perché gliel'aveva insegnato suo padre, più forte di Son Goku. Quando sono riuscita anch'io era tutto contento, mi diceva "ce l'hai fatta, ce l'hai fatta". Credo di averlo conquistato facendo la lotta quando ho tirato fuori l'onda energetica. Poi dovevo andare a cenare prima che la mensa chiudesse e lui è venuto con me, ha fatto un po' di storie perché non voleva lavare le mani ma quando io le ho lavate le ha lavate anche lui. Alla fine gli hanno dato un pezzo d'ananas e quando gli ho detto che era l'ultimo mi ha detto "no mangialo tu! Io l'ho già mangiato, mangialo tu!". Allora l'ho fatto in tre pezzi e lui mi ha detto "ma siamo due persone! Due mangiali tu!". Siamo tornati a giocare al centro e abbiamo contato insieme fino a cento vedendo chi fosse più veloce. Ha vinto lui. Alla fine doveva andare via e mi diceva "vado a casa a vedere se è arrivata mamma, se non è arrivata ritorno, aspettami qui" e andava e veniva da casa. E' dolcissimo. Ieri l'ho incontrato mentre passavo davanti alle scale di casa nostra, lui stava tornando, quando mi ha visto mi ha fatto un sorriso immenso! E' salito con la madre e poi è subito risceso con un giochino in mano, ma quando ha visto che anche io tornavo a casa ha detto "torno a casa anche io!". Era sceso apposta per giocare con me!!! Non è un amore? Mi ha reso felice. Cose come queste fanno di un posto una casa. Le persone che ti sorridono, quelle che ti aspettano, quelle per cui la tua presenza è data e non nuova, quelle persone, quei sorrisi, fanno casa. Fanno stare bene. Io amo di cuore di questo posto.

Quando il mio amico Boss mi vede mi viene sempre vicino, gioca con me, a volte mi segue, mi fa carezze sui capelli o gioca col mio piercing. Questo non è fantastico? Anche perché, come l'altra volta, in Giappone mi sento brutta. Per meglio dire, inadeguata. Sarà la stratosferica abitudine dei giapponesi a non avventarsi come piovre su tutto ciò che si muove, ma non vedo teste che si girano. Sono abituati alle straniere e forse nemmeno piacciono loro. Fatto sta che devo uscire di più o non mi troverò mai un fidanzato giapponese. E magari dovrebbe anche fare caldo così potrei togliere il cappotto. Leggo dai vostri (un po' monotoni devo dire) stati che piove, piove e ripiove. Qui fa peggio. Fa caldo, fa freddo, piove, si sta bene, tira vento, ci si scioglie. Spero si stabilizzi presto.
Anche la mia stanza sta nettamente migliorando. Ammetto che sto barando sul futon, visto che dormo su due futon uno sull'altro per evitare di continuare a coprirmi di lividi. Accanto al mio cuscino avrete notato None-chan sul suo cuscino che dorme beatamente. E' proprio il mio gatto. Sto rubando il possibile per arricchire il mio arredamento e sono abbastanza soddisfatta. Tutto va come deve andare. Ogni tanto mi sento un po' hitoribocchi per tutto questo flusso di coscienza che mi attraversa nel silenzio. Il silenzio porta ondate di coscienza, sempre. Ma le lascerò fluire, questa volta, finché non dominerò il silenzio e lo renderò mio alleato nella corsa alla verità.

Por los afectionados

Il bene di questo mio viaggio è primariamente uno: non ho internet. Il che significa che non posso connettermi ogni dieci secondi, né passare le nottate al computer. Considerando come passo le giornate non ne avrei comunque modo, ma ciò significa due cose: la prima è ovviamente che forse in questo modo la New Start riabiliterà anche me, guarendomi dal mio primordiale istinto hikikomori; la seconda, che non posso darvi quella miriade di informazioni che i miei affezionatissimi mi chiedono, visto che mi connetto al massimo un'oretta al giorno. Perciò inizierò una nuova saga cultural-demenziale da cui potrete attingere tutte le informazioni più succulente. C'est à dire..



- “Le cronache di Nipponia” -

            terzo giorno

      (domenica 15 aprile)



In primo luogo ho sonno, molto sonno. Sarà la stanchezza di due giorni di viaggio, sarà il jet lag, sarà che finora mi hanno “scugnato”, come dicono da queste parti, ma sono distrutta. Sono partita mercoledì da Potenza, giovedì alle 4.30 ero già in piedi e da allora ho rivisto il letto venerdì alle 22. Roma-Londra, tre ore e mezza a Londra, poi Londra-Tōkyō senza chiudere occhio per dieci ore, chiudere occhio per due e venire svegliata ogni dieci minuti, visti ben tre film (viva viva la videoteca della British Airways), nell'ordine Happy Feet 2, Tangled (Rapunzel per gli italici) e Footlose, infine giunta a Narita. Esco, nessuno mi viene incontro. Niente cartelli, niente visi amici. Finché quattro simpatici individui mi “riconoscono” e mi caricano. Quattro ragazzi del centro e quando dico del centro non intendo dello staff. Infatti ci siamo persi a Narita ed abbiamo girato una mezzoretta prima di trovare la macchina. Li descrivo brevemente. Uno non ha detto una parola per tutto il tempo. L'altro ha riso tutto il tempo. Gli altri due sono la coppia più bella che abbia mai visto e già miei cari amici. Uno, Nobu, 19 anni, piccolino, taglio classico, occhiali e spesso mascherina, lieve difetto di pronuncia, una sorta di tseppola, voce gentile e occhi buoni. L'altro, da me subito denominato Boss-san, alto, massiccio, capelli arancioni, pantaloni larghi messi male, felpa buttata sulle spalle, andatura larga, molto larga. Sono sempre insieme ed io non so perché. Sono una sorta di sgangherato yin e yang. Li adoro, lo giuro. Arrivata al centro, conosco alcune persone dello staff, che mi sembrano meno dello staff degli altri. Mi spiegano un po' di cose, mi bloccano già per il pomeriggio, io nel frattempo ho molto sonno, vado in camera e inizia lo sconforto. Ma non demordo. Vado a mangiare a mensa e poi ho l'appuntamento al centro con due simpatiche vecchiette, la mia coinquilina, che fa parte dello staff e porta costantemente la mascherina, anche lei e anche a casa, ed altri due ragazzi. Abbiamo giocato a carte con delle carte enormi (per la precisione “a ciuccio”, a “trova la coppia” ed al “gioco del cinque” che qui è il “gioco del sette”). Poi una pausa tè con salatini e poi ancora giochi movimentati come passarsi il palloncino fino a cento, passarselo dicendo parole con la a (che sembra facile, ma provate in giapponese) e passarselo iniziando la parola con la finale della parola dell'altro. Poi abbiamo fatto le pulizie e pooooooi ho potuto vagare un po' per fatti miei. Sono quindi andata al minimarket aperto 24/24h, sono tornata a casa e ho lavato la mia stanza e il bagno, così, per simpatia, poi ho sistemato un po' le mie cose, ho fatto la doccia, ma mi sono accorta dopo aver lavato i capelli che il mio adattatore non andava bene per quella presa, così, con i capelli bagnati, sono andata al centro dove c'è internet. Sono ritornata a casa e morta mi sono infilata in un letto che, se è vero che mi farà tornare in Italia con la schiena dritta come una modella, per ora mi sta riempiendo di lividi e d'artrosi. Sabato mattina mi sono alzata in tempo per andare a lavorare cinque ore filate in panetteria dove saranno entrati, con molta fatica, 3 clienti. Alle quattro è arrivata la ragazza che mi farà un'oretta di “lezione” ogni sabato tranne il terzo del mese e poi ho continuato a chiacchierare con un ragazzo gentilissimo che lavorava con me. Alla fine, prima di pulire, ognuno di noi ha scelto qualcosa tra ciò che era rimasto per la colazione del giorno dopo, poi abbiamo preparato due cestini con tutto il resto, abbiamo pulito e abbiamo portato i cestini al “nabekai”, ovvero una cena che si fa tre volte a settimana in cui chiunque aveva voglia di parlarmi mentre la mia testa esplodeva. Devo dire, però, che sono tutti così carini, espansivi e dolci che mi è venuta anche voglia di fare le pulizie quindi ho anche aiutato un po', sono andata al centro computer, dove ormai terminano le mie serate, e sono tornata a casa, morta. Alle dieci ero nel letto. Stamattina, all'una più o meno, sento la mia coinquilina che mi chiama da dietro la porta e mi dice che un certo tipo mi vuole parlare. Avendo sentito 27 nomi in due giorni mi sono vagamente spaventata, mi sono lavata di corsa e sono scesa. Era Boss-san che mi fa “andiamo ad Akihabara!!” ed io, con mia grande sorpresa, “subito!!! dammi quindici minuti per prepararmi!!”, quindi sono salita di nuovo, ho rifatto la doccia, sono riscesa e io, Boss (che per inciso si chiama Kuri o Kiri, non mi entra in testa) e Nobu siamo allegramente andati ad Akihabara. Che trio, che ve lo dico a fare. Dopo sei ore in giro, morta, letteralmente morta, sono tornata a casa, comprato l'adattatore ho messo qualsiasi cosa a caricare e sono andata al centro per sentire i miei. Alle dieci e mezza ero a casa. Il tempo di un chocominto con la mia coinquilina guardando un programma domenicale in cui gli Smap si truccavano da donna e ho fatto doccia e capelli. Ora, come capirete, sono morta. Del tutto. E domani posso dormire? No! Perché anche se non lavoro domani mattina arriva Claudia (tu la conosci?) ed io vado a prenderla a Narita con gli altri, alle simpatiche nove e mezza. Poi nel pomeriggio vado a Shibuya e dovrei vedere Diego. Giovedì andrò a casa di un hikikomori per cercare di convincerlo a venire al centro e ricominciare una vita normale. Se io posso essere felice senza internet, anche lui può farcela.



Cose che dovrei smettere di fare: mangiare. Non solo i chocominto della sera che sono la delizia più deliziosa tornati stanchi a casa, ma tutto il resto. Non faccio che mangiare. L'onigiri tonno e maionese, ad esempio. Oggi di fila un pizzaman e un nikuman. Ieri mattina una tasca di pane bianco sigillata ai bordi con dentro burro d'arachidi. Schifezze e ancora schifezze. Domani, finalmente, saranno gyoza e bukkake udon di Shibuya e infine ci saranno i takoyaki di Tsukiji. Quanto mi piace, il Giappone. Per quanto sono stanca, posso dirmi davvero felice. Ho staccato tutto ed ho trovato tutto, nuovo e diverso. E dove nessuno mi conosce posso essere come voglio senza confini. Mi trovo molto diversa anch'io. Natassja giustamente dice “amici, tu? Subito?” ed è assolutamente vero. Sarà che qui non sono i soliti giapponesi. Sono più semplici, meno cerimoniosi, più sorridenti, più osservatori. E quando serve, ti lasciano in pace. Ti apprezzano per qualsiasi cosa e ti studiano, poi ti cercano con immediatezza. Mi piace tanto, qui. E' pacifico. Dolce. Sto molto meglio che la prima volta. Non ho una nippofamiglia che mi controlla, mi inquadra e mi vuole parlare ad orari per forza. Non ho un fidanzato che mi manca più dell'aria e necessità di stare incollata ad uno schermo per ore. Non ho un luogo in cui tornare di corsa, posso staccarmi da un mondo noto per un po' senza perdere niente. Non ho paura, per niente. Perché qui posso stare in silenzio, posso mangiare quando mi va cosa mi va, posso andare dove mi va quando mi va, ci sono tante persone che già conoscono il mio nome e le mie battute stupide, e le apprezzano!!!, posso sbagliare a parlare perché qui non frega niente a nessuno, continueranno a chiedermi di uscire e sorridermi ed invitarmi al nabekai, qui conta quello che fai e come lo fai e soprattutto quanto sorridi. Vivo una vita più semplice in un posto straordinario, è come un eremitaggio nel paese delle meraviglie. Perciò non vi preoccupate, io sto bene. Credo solo che tornerò di 300 kg. Oddio, considerando che due giorni a settimana lavoro cinque ore senza pause ed altri due otto ore senza pause, forse riuscirò a bilanciare. Di sicuro tornerò con la schiena dritta e non solo grazie al futon.