giovedì 5 luglio 2012

L`ultimo Engawa

- "Le cronache di Nipponia" -
    ottantatreesimo giorno
      (lunedì 2 luglio)

L’ultimo Engawa. Lunedì dell’ultima settimana, iniziano a finire i turni. Nel lettore un cd dei Beatles, ma ho già lì pronto One Love di Bob Marley & the Wailers e da qualche parte dovrebbe rintanarsi il mio Norah Jones prediletto. Oggi sola e lo preferisco.

Ci sono luoghi qui che sono davvero diventati miei. Prendi l’Engawa. È stato un turno che ho odiato, 8 ore in una caffetteria vuota ma sempre con le persone sbagliate. Ma una caffettria è proprio un luogo da italiani, in particolare da me. E così quando non era il mio turno, senza nessuno che potesse dire né a né b né c (o né a né r né e), mi svagavo giocando alla “signora del bar”, questa classica figura nostrana dall’immenso potere dionisiaco-seduttivo. Il bar, in Italia, è un nodo focale d’interazione, un topos abbastanza poco letterario e molto molto pragmatico. E a stare dietro al bancone, buttarmi sui divanetti, aprire a mio piacimento frigoriferi e bottiglie, lavare e asciugare piatti velocemente e con dimestichezza, mi sentivo molto una piccola bimba cresciuta che gioca a giocare a non crescere col gioco da bambini di quando era grande. Soprattutto il sabato.

Questa caffetteria cambia a seconda dei giorni. Quando ci lavoro io è un luogo abbastanza serio e melanconico, pochi seri clienti, poche serie visite, molta preparazione di curry, molta gente impacciata che viene ad imparare mooooolto lentamente come fare un caffè, un inchino e qualche formula, molto poco Hiro che il lunedì “si dà”, come dicono a Nagoya in periferia. Il mio giorno preferito per la caffetteria è nettamente il sabato. Io sono libera fino alle 14.30 e lui indossa l’apron blu che così bene sta solo a lui. Se legge, come adora fare, usa anche quegli occhialetti da ossan e io perdo il controllo. È bello, quindi dietro al bancone risplende. Non so dove la prenda tutta quella luce, forse dalla disperazione. Comunque sia, il sabato è festa. Siamo sempre tutti i qui, Macchan è pacato e si fa i fatti suoi, quindi quando tutti decidono finalmente di andarsene un po’ tutti a fare i fatti loro da un’altra parte noi entriamo in un piccolo mondo nella saletta che diventa salottino. Il mio posto è sul divanetto e lui di fronte in poltrona. E come tutto il mondo quando ci viviamo noi, anche quel pezzo di estraneità diventa casa nostra. La nostra stanza è ovunque nel mondo decidiamo di escludere tutto e iniziare a parlarci in silenzio. E siamo solo noi due.

In questa caffetteria è successo di tutto. Abbiamo litigato, ci abbiamo bevuto, ci siamo baciati furtivamente, ci siamo baciati meno furtivamente, ci siamo abbracciati, abbiamo pianto, ci sono tornata ogni qualvolta il venerdì dormivo a Kichijouji da Diego (e ogni volta il suo sguardo) e ci abbiamo riso così forte che l’hanno capito tutti che ci eravamo innamorati. Sempre ascoltando i Sambomaster, sempre la nostra canzone mugugnata fino a quelle parole che sappiamo bene e che parlando di addio non so perché urliamo a squarciagola ridendo. Forse perché a noi, l’addio, fa ridere.

Mi piace stare qui dietro, sentire quell’onnipotenza dionisiaca italiana del momento in cui entra un cliente ed io rapida e sicura gli riempio il bicchiere di acqua, ghiaccio e limone e glielo porto con un gesto quasi elegante chiedendogli se voglia ordinare e piegando impercettibilmente la testa quando sicura e rapida porto l’ordinazione. Goyukkuridouzo.

Mi piace preparare il curry e mangiare di nascosto pezzettini di maiale fritto con la polvere di curry. Mi piace meno puzzare di curry dopo, ma almeno di solito io non taglio le cipolle. E lui è l’unico che non ci piange, io non so come fa. Sembra proprio un cuoco da film, con quella mezza sigaretta in bocca poggiata ovunque e ripresa senza mani mentre gira il tutto o versa qualcosa o combina danni. Come sempre.

Anche l’Engawa mi lascia così tanto, è stato davvero uno dei luoghi prediletti dei nostri sogni. In particolare, il bancone e il divanetto. Su uno ho dormito sull’altro ho sognato. In entrambi i casi, ho visto gli stessi colori e le stesse ombre. Calde e ventilate come un odore di caramelle nell’aria.

Lascio l’Engawa con la celeberrima ricetta del curry alla giapponese:

In primo luogo, prendete 3 cipolle, 2 carote, vino rosso, 4 foglie di lauro, 2 dadi di brodo, 400 gr. di carne di maiale (ma è ottimo anche col vitello), alcol da cucina, polvere di curry, un barattolo di pelati, una banana, una mela, 3 spicchi d’aglio, 2 cubi di curry giapponese (kokumaro), 1 di curry di verdure e 1 di curry indiano, 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaio di salsa di qualcosa che dopo 3 mesi non è meglio identificata, 4 cosini di crema per il caffè (tipo latte denso), 1 bella tazza di caffè lungo alla giapponese e 1 spezia piccante a scelta.

Ora..tagliate le tre cipolle e mettetele a cuocere per un’ora e mezza fino a carbonizzarle (secondo loro, nere marce va benissimo..ma come ho potuto sperimentare dopo molte lotte per l’emancipazione delle cipolle dal cancerogeno, se le mettete a fuoco lentissimissimo ce la fate a farle scurire senza farle diventare utili a disegnare a carboncino). Nel frattempo, in una pentola molto grande mettete 200 cc. d’acqua, 150 cc. di vino rosso, 4 foglie di lauro, i 2 dadi di brodo e fatele bollire. Ancora prendete la carne di maiale a pezzetti, la cospargete di alcol da cucina e di polvere di curry e la friggete. Ancora a parte, mettete a frullare nel mixer mezza carota, mezzo barattolo di pelati, mezza mela, una banana e 3 spicchi d’aglio. Infine tagliate una carota a metà e poi ogni metà la tagliate a zig-zag creando dei triangolini strani. Quando l’acqua bolle, togliete le foglie di lauro, versate il composto del mixer, la carne e i triangolini di carota. Aggiungete anche i cubi di curry e fate cuocere per mezzora. Sul finire, aggiungete 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaio di salsa non identificata, i 4 cosini di crema per il caffè, 1 bella tazza di caffè giapponese, ancora vino rosso a piacere e una spezia piccante finché non vi sanguinano gli occhi dalla delizia.

Fate cuocere a piacere e il curry è pronto. Umai!!

Ora passiamo a Norah Jones.

Le pericolosissime cronache di Nipponia

- "Le cronache di Nipponia" -
     settantatreesimo giorno
      (venerdì 22 giugno)

In vita mia ho litigato con tutti i tipi di persone e cazziato parecchi adulti, ma la scena di me che rimprovero la polizia e poi arrabbiata li costringo a riaccompagnarmi a casa anche alle 2 di notte merita un’immediata cronaca di Nipponia.

Scena. Una coppia felice in un parco si promette amore fedele, si sussurra parole di pura gioia e si abbraccia paziente pronta ad affrontare le avversità del futuro. Sovrastati dalla gioia di cui sopra fanno una serie di cose stupide, tipo andare a fare pipì per poi corrersi incontro, abbracciarsi e dirsi “bentornato/a” e raccogliere una bicicletta scassata da terra e iniziare a portarsela dietro. Dopo 2 metri dall’uscita del parco lui ha la brillante idea di girarsi a guardarla (non si fa, Orfeo, è dame) e le dice spontaneo “ma perché oggi il tuo viso è così bello? È il solito viso, perché sei così bella?” e ad Euridice viene quasi un infarto e si blocca in mezzo alla strada piegandosi sulle gambe e iniziano a ridere e a quel punto i malvagi poliziotti si approssimano. Lei vede la polizia e si scosta ma loro la guardano e lei li guarda e loro la guardano e lei li guarda e loro la guardano e lei li guarda. E loro si fermano. E iniziano. E che state facendo e dove andate e di chi è questa bicicletta, prendono il numero della bici e il giovane fa l’errore di dire “è mia”. La poliziotta torna in macchina, quindi il bravo ragazzo dopo aver komattato per bene le bussa e le dice “la verità è che l’abbiamo raccolta” e iniziano a chiedere nome, cognome, dati e dove l’avete presa e perché e non si tocca la roba degli altri e “venite alla polizia”. Il ragazzo inizia a morire dentro per la vergogna e supplica di poter andare solo lui, la ragazza è quasi eccitata all’idea. La scena è questa. Lui, questo terribile criminale nipponico, testa bassa, umiliatissimo, chiede perdono alla fanciulla che è invece pronta alla lotta già nettamente innervosita dalla situazione. Il punto è questo: non avendo fatto nulla di illegale in realtà in Giappone la polizia ti deve fare “la ramanzina”. Lui lo iniziano a trattare come spazzatura, lei è italiana. La portano in macchina con la poliziotta e inizia un discorso donna a donna. Lei ci tiene a spiegarmi che in Giappone toccare la cosa di un altro è vietato, tanto carina, ma io le ho iniziato a snocciolare la mia analisi socio-comportamentale sull’attitudine nipponica e i problemi di comunicazione e la grande tensione che spinge molti giapponesi a suicidarsi e dopo averla rimproverata per l’eccessiva severità e per la bruta attitudine del suo collega anziano mi sono sentita dire quanto sia brava se sono riuscita non solo a farmi capire, ma anche a trasmetterle i miei veri sentimenti e l’amore che provo per lui. Quel “gomennasai” me lo sono goduto come pochi.

E poi lei inizia a spiegare il mio discorso maturo ad un altro collega (gentile, devo dire) e lui pensieroso annuisce anche quando gli dico “mi dispiace, ma avete proprio sbagliato. Per colpa vostra ora quel ragazzo sta male, vi siete comportati proprio male”. E alla fine arriva questo stupido borioso che apre la portiera e inizia a dire “ci saranno pure diversi modi di pensare, tra l’Italia e il Giappone, ma qui siamo in Giappone e si fa così”, però poi al mio “questo perché sei una persona leggera e hai un modo di pensare superficiale. Se fossi una persona profonda capiresti qualcosa in più”, non sapendo cosa rispondere, col muso annuisce e richiude la portiera. Poi ancora chiacchierate gentili con il collega che capisce perfettamente e si fa più di qualche risata e sembra visibilmente dispiaciuto e infine il clue, quando mi iniziano a dire che io devo tornare prima di lui con una macchina diversa e inizio a dire che se lo possono scordare si appropinqua il primo scorbutico che alza la voce e per poco non mi mangio vivo. Il colpo di grazia quando si para davanti a me per fare il bullo e io mi faccio ancora più vicina e lo fisso negli occhi facendogli abbassare lo sguardo mentre il gentile collega chiude gli occhi davanti all’arroganza del vecchio.

Purtroppo quel buon uomo della mia metà alla fine è venuto fuori a dirmi che andava tutto bene, che loro lo avrebbero accompagnato a casa e io dovevo subito andare a letto e stare tranquilla. Siccome me l’ha chiesto lui mi sono calmata, gli ho augurato la buonanotte, abbiamo riso davanti a quelle pecore e hanno iniziato a dire che dovevo andare a piedi perché la macchina era solo una e c’era stato un altro problema. A quel punto sono scoppiata. Io che dico ad un poliziotto giapponese “adesso fai il tuo dovere fino alla fine e mi riporti a casa” è da guinness dell’assurdo. Sono tanto fiera di me.

Io capisco che i giapponesi vengano lobotomizzati da subito, capisco che crescano con l’idea “se questo si fa e questo non si fa così è e bona lè”, ma ad un certo punto ci sarà qualcosa che distingue l’essere umano da una bertuccia. Le bertucce sono molto più libere direi. Pensate, comunicate, capite, ma di che diavolo state blaterando? Capisco che questo sia il Giappone, ma siamo sempre nel mondo! Si chiama “umanità”. Forse è per questa poca giapponesità che paradossalmente amo alla follia il mio uomo. È uno stupendo libero problematico giapponese.

Ongoing

- "Le cronache di Nipponia" -
     settantaduesimo giorno
      (giovedì 21 giugno)

Come dice mio padre, anche all’altro capo del mondo “ij rest semb vignules”. Che per i profani significa che dovunque andiate la vostra italianità vi seguirà come un’ombra ilare.
Non sapendo cosa mi aspettasse qui, ho ben pensato di comprare in Italia il Japan Rail Pass. 560 euro ben spesi, se non avessi lavorato 4 giorni a settimana, gli altri giorni fatto rental oppure amato molto e non mi fossi ridotta dunque all’ultimo giorno per andare da qualche parte. Avendo speso sì e no 150 euro di viaggio era il caso che facessi il botto l’ultimo giorno sparandomi più di trecento euro tutti in una volta. E allora andiamo ad Osaka. Ci sta.
Però, se devi andare ad Osaka, che fai, ti avvii alle 12.30 da Chiba? Per arrivare alle 13.00 ad Otemachi e prendere l’Hikari delle 13.33 che ti porterà a Shin-Osaka alle 16.33? Sì. Quindi ora mi faccio un sonno da Shinkansen, arrivo ad Osaka, provo a vedere il castello, mi calo okonomiyaki, takoyaki e quant’altro fino a svenire e torno in tempo per l’amore. Così si fa. W l’Italia.

Di ritorno, posso aver constatato che gli osakesi sono i napoletani di Nipponia, ma senza la loro simpatia né la loro furbizia. Insomma, manca il meglio. Gli osakesi sono cazzimmossi e vrenzoli, sempre approssimativamente parlando. Ma veniamo al mio viaggio. Mi avvio da Gyotoku molto presto, verso le 12.30, per gradire. L’unica cosa che avevo in mano era una mezza paginetta di wikipedia sul castello di Osaka. Arrivo alle 13.00 ad Otemachi, che per la JR è la Tokyo eki, e chiedo, semplicemente, “lo Shinkansen per Osaka?”. “A quell’ora, da quel binario, vada di lì, lo prenda così, faccia così, prego”. Seguo le frecce, l’intuito e i tabelloni. Mi siedo scazzata sullo Shinkansen e mi faccio un paio d’ore di sonno. Alle 16.30 sono a Shin-Osaka. Scendo. Mi guardo intorno. “Scusi, per Osaka?”. “Faccia così, vada di lì, giri di qui, a quell’ora, da quel binario, non può sbagliare, tot fermate”. Salgo sul treno senza l’ombra di una mappa. Una fermata. Osaka. Ancora “per il castello di Osaka?”. Ancora “lì, qui, così, grazie, prego”. Altro treno, guardo le fermate ad una ad una finché scorgo, sul grande cartello ben visibile ad ogni fermata, Osaka-jo. Scendo, vado ai tornelli. “Scusi, per il castello?” e non finisco neanche di parlare che mi ha messo in mano una mappa-depliant e mi spiega ogni minimo passo. Che ve lo dico a fare.

Il Giappone è facile. Ho immaginato per un attimo la stessa scena in Italia ed ho iniziato a sudare. Mi sono spaventata prima ancora di pensare a dove andare e come. E soprattutto a chi chiedere.

Comunque, ore 17.00, mi incammino verso il castello, ovviamente già chiuso, sotto una pioggia scrosciante e fredda quanto un bacio di Garigari-kun e il tempo di incantarmi nei giardini, impantanarmi negli stessi, fare foto con il cellulare bagnato, ritornare per la stessa strada, farmi adocchiare da un paio di gaijin, che per le 18.00 ero bella che tornata alla stazione. Telefonata rassicurante al mio uomo, risate sull’omiyage più stupido mai comprato, indietro alla stazione di Osaka e dritti nel covo del fritto.

Fuori dalla stazione, in un sobborgo di vicoletti, si condensa una cappa di fritto e stracotto che pervade bui e tetri anfratti dotati a malapena di banconi. Piccoli, sudici e malfamati, come tutti i posti in cui di solito si mangia bene. Sarà quel retrogusto di lercio, non so. Fatto sta che dopo 8 takoyaki a soli 280 yen in piedi ad un baracchino decido di addentrarmi nella nippotown più oscura. Qui la cappa di fritto diventa nera e densa, l’uomo in canotta frigge a tutto spiano, la donna gentile e titubante mi guarda contrita e chiede alla vecchiaccia anche il permesso di darmi dell’acqua (e la vecchiaccia risponde “dagliela!”). Ordino e dopo aver rischiato la vita per una piccola battuta (sono sicura che se poi non avessi taciuto la vecchiaccia mi avrebbe affettato un dito prima di impanarlo, friggerlo e servirlo “al sangue”) ritorno alla grigia, ma almeno sfritta, aria aperta. Ri-corro in stazione e finalmente alle 18.40 sono di nuovo sull’Hikari. Alle 23.00 sono a Gyotoku in tempo per ritelefonare a quell’amore del mio amore che sapendo che potessi essere io stava per bruciare tutto con la schiuma (per altro, immaginarlo che corre dalla doccia al cellulare tutto coperto di schiuma è delizioso), farmi una cup-udon a casa e finalmente lavarmi via di dosso il vociare fastidioso e ingombrante in Osaka-ben.

In tutto ciò, per chi volesse andare a Nagoya, Kyoto o Osaka in Shinkansen, posso dirvi ogni passo e ogni cartello da qui a lì ormai. Ho dormito più nell’Hikari che nel mio letto. Voi dovete solo chiedermi “Scusi, per Nagoya/Kyoto/Osaka?”.

“Lì, qui, a quest’ora/binario/carrozza, per di lì, passando per di qui, ma è più facile poi andare di là, l’orario del prossimo è, grazie, prego”, proprio come piace a noi.