giovedì 5 luglio 2012

Ongoing

- "Le cronache di Nipponia" -
     settantaduesimo giorno
      (giovedì 21 giugno)

Come dice mio padre, anche all’altro capo del mondo “ij rest semb vignules”. Che per i profani significa che dovunque andiate la vostra italianità vi seguirà come un’ombra ilare.
Non sapendo cosa mi aspettasse qui, ho ben pensato di comprare in Italia il Japan Rail Pass. 560 euro ben spesi, se non avessi lavorato 4 giorni a settimana, gli altri giorni fatto rental oppure amato molto e non mi fossi ridotta dunque all’ultimo giorno per andare da qualche parte. Avendo speso sì e no 150 euro di viaggio era il caso che facessi il botto l’ultimo giorno sparandomi più di trecento euro tutti in una volta. E allora andiamo ad Osaka. Ci sta.
Però, se devi andare ad Osaka, che fai, ti avvii alle 12.30 da Chiba? Per arrivare alle 13.00 ad Otemachi e prendere l’Hikari delle 13.33 che ti porterà a Shin-Osaka alle 16.33? Sì. Quindi ora mi faccio un sonno da Shinkansen, arrivo ad Osaka, provo a vedere il castello, mi calo okonomiyaki, takoyaki e quant’altro fino a svenire e torno in tempo per l’amore. Così si fa. W l’Italia.

Di ritorno, posso aver constatato che gli osakesi sono i napoletani di Nipponia, ma senza la loro simpatia né la loro furbizia. Insomma, manca il meglio. Gli osakesi sono cazzimmossi e vrenzoli, sempre approssimativamente parlando. Ma veniamo al mio viaggio. Mi avvio da Gyotoku molto presto, verso le 12.30, per gradire. L’unica cosa che avevo in mano era una mezza paginetta di wikipedia sul castello di Osaka. Arrivo alle 13.00 ad Otemachi, che per la JR è la Tokyo eki, e chiedo, semplicemente, “lo Shinkansen per Osaka?”. “A quell’ora, da quel binario, vada di lì, lo prenda così, faccia così, prego”. Seguo le frecce, l’intuito e i tabelloni. Mi siedo scazzata sullo Shinkansen e mi faccio un paio d’ore di sonno. Alle 16.30 sono a Shin-Osaka. Scendo. Mi guardo intorno. “Scusi, per Osaka?”. “Faccia così, vada di lì, giri di qui, a quell’ora, da quel binario, non può sbagliare, tot fermate”. Salgo sul treno senza l’ombra di una mappa. Una fermata. Osaka. Ancora “per il castello di Osaka?”. Ancora “lì, qui, così, grazie, prego”. Altro treno, guardo le fermate ad una ad una finché scorgo, sul grande cartello ben visibile ad ogni fermata, Osaka-jo. Scendo, vado ai tornelli. “Scusi, per il castello?” e non finisco neanche di parlare che mi ha messo in mano una mappa-depliant e mi spiega ogni minimo passo. Che ve lo dico a fare.

Il Giappone è facile. Ho immaginato per un attimo la stessa scena in Italia ed ho iniziato a sudare. Mi sono spaventata prima ancora di pensare a dove andare e come. E soprattutto a chi chiedere.

Comunque, ore 17.00, mi incammino verso il castello, ovviamente già chiuso, sotto una pioggia scrosciante e fredda quanto un bacio di Garigari-kun e il tempo di incantarmi nei giardini, impantanarmi negli stessi, fare foto con il cellulare bagnato, ritornare per la stessa strada, farmi adocchiare da un paio di gaijin, che per le 18.00 ero bella che tornata alla stazione. Telefonata rassicurante al mio uomo, risate sull’omiyage più stupido mai comprato, indietro alla stazione di Osaka e dritti nel covo del fritto.

Fuori dalla stazione, in un sobborgo di vicoletti, si condensa una cappa di fritto e stracotto che pervade bui e tetri anfratti dotati a malapena di banconi. Piccoli, sudici e malfamati, come tutti i posti in cui di solito si mangia bene. Sarà quel retrogusto di lercio, non so. Fatto sta che dopo 8 takoyaki a soli 280 yen in piedi ad un baracchino decido di addentrarmi nella nippotown più oscura. Qui la cappa di fritto diventa nera e densa, l’uomo in canotta frigge a tutto spiano, la donna gentile e titubante mi guarda contrita e chiede alla vecchiaccia anche il permesso di darmi dell’acqua (e la vecchiaccia risponde “dagliela!”). Ordino e dopo aver rischiato la vita per una piccola battuta (sono sicura che se poi non avessi taciuto la vecchiaccia mi avrebbe affettato un dito prima di impanarlo, friggerlo e servirlo “al sangue”) ritorno alla grigia, ma almeno sfritta, aria aperta. Ri-corro in stazione e finalmente alle 18.40 sono di nuovo sull’Hikari. Alle 23.00 sono a Gyotoku in tempo per ritelefonare a quell’amore del mio amore che sapendo che potessi essere io stava per bruciare tutto con la schiuma (per altro, immaginarlo che corre dalla doccia al cellulare tutto coperto di schiuma è delizioso), farmi una cup-udon a casa e finalmente lavarmi via di dosso il vociare fastidioso e ingombrante in Osaka-ben.

In tutto ciò, per chi volesse andare a Nagoya, Kyoto o Osaka in Shinkansen, posso dirvi ogni passo e ogni cartello da qui a lì ormai. Ho dormito più nell’Hikari che nel mio letto. Voi dovete solo chiedermi “Scusi, per Nagoya/Kyoto/Osaka?”.

“Lì, qui, a quest’ora/binario/carrozza, per di lì, passando per di qui, ma è più facile poi andare di là, l’orario del prossimo è, grazie, prego”, proprio come piace a noi.

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